lunedì 24 giugno 2013

Review


                                                  

Miles Kane Don’t Forget Who You Are 
2013 
Columbia 
ll nostro caro Miles Kane ne ha fatta di strada da quando nel 2004 cominciava a muovere timidamente i primi passi con i Little Flames , band di Hoylake nel Merseyside, divenuti poi Rascals in seguito alla decisione della prima voce Eva Petersen di abbandonare il gruppo per intraprendere una carriera da solista. Decisione che ha permesso a Miles Kane di divenire frontman indiscusso della band ed acquisire ulteriore notorietà nella scena inglese. La notorietà si tramuterà presto in fama grazie al progetto parallelo dei Last Shadow Puppets con l’amico Alex Turner(Arctic Monkeys) che consacrerà il suo definitivo ingresso tra le stelle più luminose nel firmamento della gloriosa terra d’Albione raggiungendo immediatamente, con la pubblicazione di “The Age of the Understatement”, la vetta delle classifiche inglesi. Un successo talmente conclamato da convincere Kane ad abbandonare i Rascals ed imboccare la tortuosa strada verso la carriera da solista a soli 23 anni esordendo con “The Colour of the Trap”, album ben accolto dalla critica arricchito oltretutto dalle preziose collaborazioni di Alex Turner e Noel Gallagher. Preziose quanto quelle di Paul Weller, Andy Partridge (XTC) e Ian Broudie (The Lightning Seeds) nel nuovo album ”Don’t Forget Who You Are”, trentadue minuti tirati ed adrenalinici di puro e sano brit rock in ogni sua più colorita sfumatura. Kane, in questa sua ultima fatica, riprende e rivisita il meglio delle sonorità britanniche degli ultimi 50 anni modernizzandole e riproponendole in 11 tracce (14 nella versione deluxe) da ascoltare rigorosamente ad alto volume. Le liriche sono dirette, taglienti, rivendicative e devono molto allo stile e all’attitudine dei primi Jam (facilmente percepibile lo zampino del modfather in tutto l’album) dai quali cerca di raccoglierne un’eredità ancora però molto lontana. Le sonorità devono molto ai vari Lennon, Gallagher, Bolan, Ray Davies, Townshend ed un pizzico anche di Keith Richards perché no. L’album si apre con Takin Over e si viene immediatamente scaraventati nella Londra primi anni ‘70 tutta paillettes e lustrini dei vari T-rex &co con quei riff incalzanti di chitarre fuzz accompagnate da un drumming stomper che ci perseguiterà praticamente per tutto il disco. Si procede conDon’t Forget Who You Are la traccia che da il titolo all’album e le atmosfere desertiche delle sue chitarre rockabilly sovrastate da ritornelli pop-killer con quel la-la-la che stenta a staccarsi facilmente dalla testa seguita da Better Than That ed il suo ritmo in uptempo con quell’hammond e quei coretti dai forti richiami al soul ballato nelle palestre popolari del nord Inghilterra negli anni ’60 e‘70 rivisitato ovviamente in chiave garage rock, analogo discorso anche per First Of My KindCon Out of Control si ha uno dei rari momenti nell’ascolto dell’album per poter tirare il fiato assieme a Fire In My Heart, due britpop ballad che sanno molto di Verve grazie soprattutto ai loro archi dolci uniti a chitarra acustica e piano che ci rimandano inevitabilmente ai gloriosi ed irripetibili anni ‘90. Dopo il robusto rock’n’roll di Bombshells e Tonight arriva la feroce ed irriverente You’re Gonna Get It eseguita assieme al “modfather” Paul Weller (si vocifera dell’uscita di un prossimo intero disco proprio in coppia con Miles) seguito da Give Upormai noto brano di lancio dell’album. Il finale dell’album è tutto al tritolo e culmina con la scheggia punk rock Start Of Something Big dal giro di chitarra acida che tanto ricorda quella New Rose dei tanto amati Damned. Beat, 60’s sound, soul, psych, garage, glam, punk, rockabilly insomma tanta carne al fuoco ben distribuita in un album equilibrato, dall’ascolto scorrevole e mai noioso, con riff coinvolgenti, beat martellanti, ritornelli riusciti e doppie voci orecchiabili, sonorità in cui l’artista apporta uno stile tutto suo ridendo in faccia al rischio di cadere nel vortice della rivisitazione sbiadita di generi musicali ormai inflazionati. Non viene sbagliato quindi un colpo in quello che si prepara ad essere uno dei dischi più interessanti del 2013. Eh si, Il nostro Miles Kane ne ha proprio fatta di strada.



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sabato 22 giugno 2013

Live Review

Live Review



Calibro 35 @ Teatro la pergola Firenze 15/05/2013


C’è stata un’epoca nel nostro paese in cui l’arte compositiva dei grandi musicisti italiani si metteva al servizio del grande schermo per dare vita ad opere che tutt’oggi fanno scuola nel mondo. Un periodo d’oro che vedeva registi come Mario Bava, Umberto Lenzi, Lucio Fulci, Dario Argento, Elio Petri chiedere collaborazione ai maestri Ennio Morricone, Giorgio Gaslini, Stelvio Cipriani o Riz Ortolani (solo per citarne alcuni) per creare dei vestiti sonori adatti ai propri film, come 4 Mosche di velluto grigio (1971), Casa dalle Finestre che ridono (1976), Una lucertola con la pelle di donna (1971), Il gatto a nove code (1975).
Oggi, grazie al lavoro dei Calibro 35, in “Indagine sul Cinema Italiano del brivido”, tale patrimonio vive una seconda giovinezza. Per la prima volta a Firenze, ad un anno e mezzo dalla precedente ed unica esibizione al Teatro dal Verme di Milano, è stata proposta, nella sontuosa cornice del Teatro della Pergola, una venue particolare, per veri e propri amanti del genere. Una sorta di progetto parallelo in cui vengono messe da parte le colonne sonore dei b-movie poliziotteschi anni 60 e 70, vero e proprio marchio di fabbrica della band milanese, per lasciare spazio e tributare il thriller, il giallo e l’horror. La miscela esplosiva di prog, funk e fusion normalmente riproposto nei normali concerti dei Calibro 35, viene sostituita da atmosfere strumentali inquiete, cupe e perennemente sospese.
Come se non bastasse, per riprodurre al meglio la dimensione orchestrale di quelle colonne sonore, la band sale sul palco accompagnata dalla tromba di Paolo Raineri, dal trombone di Francesco Bucci,dalle percussioni di Sebastiano De Gennaro, dal violino di Rodrigo D’Erasmo (Aftherhours) e dal violoncello di Daniela Savoldi. Due ospiti speciali della serata, provenienti sempre dalla scena indipendente italiana, sono stati la talentuosa Serena Altavilla (cantante dei Blue Willa) e l’eclettico del moog theremin, Vincenzo Vasi, direttamente dalla band di Vinicio Capossela.
Dopo la breve introduzione di Giuseppe Vigna (direttore artistico del Musicus Concentus) si apre il sipario su una esibizione di elevato livello. I Calibro 35 si divertono e fanno divertire per quasi un’ora e trenta minuti il gremito pubblico fiorentino, prendendolo per mano ed accompagnandolo in un suggestivo e coinvolgente viaggio sonoro e visivo (ottimo il gioco di luci sul palco che esalta la potenza delle esecuzioni). Come perfetti alchimisti del suono, giocano ed entusiasmano i presenti mantenendone sempre alta l’attenzione. Merito, oltre la qualità tecnica delle esecuzioni, di una intelligente scelta di 18 brani, prelevati da un vasto campionario cinematografico-musicale, dai ritmi e dalle sonorità variopinte e mai ridondanti che spaziano dall’inquietudine trasmessa dagli archi stridenti e dissonanti e dalle disarticolate sequenze di piano presenti inTrafelato (1971)brano di Morricone, alla psicotica irrequietezza generata da quell’insano giro di cembalo in Tentacoli (1971) di Stelvio Cipriani (traccia presene anche nel poliziottesco La polizia sta a guardare ripreso anche da Tarantino in Grindhouse), attraversando anche sessioni più ritmate come 5 Bambole per la luna d’agosto(1970) di Pietro Umiliani o Rhythm(1972) del grande Luis Bacalov, brani che grazie al loro groove caldo e trascinante hanno scaldato non poco il teatro. Il tutto colorato dalle esaltanti performance di Vincenzo Vasi e del suo theremin durante l’esecuzione di Un tranquillo posto di campagna(1968), eccentrica e sperimentale composizione Morriconiana, e dalle estensioni vocali di Serena Altavilla in Quei giorni insieme a te(1972) di Riz Ortolani che rende pienamente giustizia all’originale interpretazione della Vanoni. Una selezione sonora avvincente, quindi, che riesce a tenere sempre tirato il filo della tensione emotiva in ogni sua sfumatura e che trova il suo momento più alto durante l’esecuzione di Profondo Rosso (1975) della coppia Goblin/Gaslini, per poi terminare dopo una breve pausa con un fuori programma, La morte accarezza a mezzanotte(1972) di Gianni Ferrio.
Si conclude così un evento ben costruito e riuscito in ogni suo minimo dettaglio. Un professionale e appassionato omaggio ai protagonisti di un’era musicale cinematografica e culturale indimenticabile. In chiusura, colpisce l’età media dei presenti: ragazzi che, come il sottoscritto, quaranta anni fa non erano neanche nei pensieri dei propri genitori. Segnale questo, forse, che i Calibro 35 ci sanno fare davvero?



SETLIST
Casa dalle finestre che ridono – Amedeo Tommasi
L’alba dei morti viventi Zombi – Goblin
5 Bambole per la luna d’Agosto – Pietro Umiliani
Cannibal Holocaust – Riz Ortolani
Cannibal Ferox – Budy Maglione
span style="font-size: medium">Shock – Libra
Tentacoli – Stelvio Cipriani
4 Mosche di velluto grigio- Ennio Morricone
Cosa avete fatto a Solange?- Ennio Morricone
Un tranquillo posto di campagna – Ennio Morricone
Una Lucertola con la pelle di donna – Ennio Morricone
Trafelato – Ennio Morricone
Rythm – Luis Bacalov
Quei giorni insieme a te – Riz Ortolani
Allegretto per signora – Ennio Morricone
Il gatto a nove code – Ennio Morricone
Profondo Rosso – Giorgio Gaslini
BIS
La morte accarezza a mezzanotte – Gianni Ferrio 



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Two More Canvases
Two More Canvases
2013
Autoprodotto


 

Yuri Salihi (voce, chitarra), Giulio Maria Di Salvo (voce, chitarra) Tommaso Carlà (basso), Tommaso Brandini (tastiere) e Alessio Bambi (batteria) sono i Two More Canvass. Band giovanissima (età media 18 anni) proveniente da Firenze e dintorni che in soli otto mesi di esistenza ha già inanellato una serie di primi  importanti risultati; su tutti la prestigiosa partecipazione al Rock Contest indetto da Controradio di Firenze (dopo aver superato una selezione tra otre seicento band) nonché prima scelta per aprire le date italiane del tour europeo degli spagnoli Cut Your Hair. Una precocità anagrafica praticamente impercettibile grazie oltretutto alla forte personalità  espressa nell’esecuzione dei cinque brani presenti nell’omonimo EP autoprodotto registrato negli studi El-Sop di Sesto Fiorentino, uscito a fine Marzo. Una notevole qualità tecnica che basa la sua forza sull'impatto armonico delle chitarre elettriche, una serrata base ritmica ed il particolare alternarsi delle due voci con melodie che a tratti riconducono alla mente il calore timbrico di Chris Martin e la particolare intensità di Luke Pritchard. Il suono di queste tracce è facilmente, forse anche eccessivamente, riconoscibile. I Two More Canvass attingono a piene mani dall’indie rock britannico ed oltre-oceanico dell’ultimo decennio  a cominciare dalla chiara somiglianza ai Libertines in “Unclean Babe”, a quei riff tirati stile Strokes in “All my doubts” o alle parti ritmiche e le melodie vocali fortemente riconducibili ai Kooks in “Inner”. Il discorso cambia con le due successive tracce, I’m not dead yet (singolo di lancio) e Desirèe, di superiore maturità compositiva in cui emerge sicuramente più originalità. Un esordio nel complesso molto interessante e, data la rigorosa scelta delle liriche esclusivamente in inglese, un progetto coraggioso ed ambizioso. The kids are alright, i presupposti ci sono tutti, una band sicuramente da tenere d’occhio .
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Extra Medium Pony 

11868 
2013 Exit Stencil Recordings 














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Midnite 
2013
Tanta Roba
Dopo l’affermazione di “The Island Chainsaw Massacre”,Salmo raggiunge lo stadio più alto in una carriera che lo ha visto partire da zero e farsi strada da solo senza l’aiuto di alcuna giostra mediale. Una escalation possibile solo attraverso coerenza, costanza, le giuste intuizioni collaborative ma soprattutto una maniacale cura delle forme virali di comunicazione. Negli ultimi due anni la quantità di mixtapes, singoli e release non ufficiali con annessi video self-made di elevata qualità hanno contribuito a creare attorno a Salmo una visibilità tale da costruire, beat dopo beat, un solito seguito nella scena rap underground fino addirittura a calamitare le attenzioni del pubblico mainstream più distratto o non amante del genere.
Salmo irrompe nell’attuale panorama musicale italiano con un rap potente ed innovativo allo stesso tempo. Le sue liriche aggressive, dirette e piene di citazioni sono un rigurgito generazionale verso una dimensione terrestre sempre più fittizia e lontana da ogni logica di stabilità. Un’attitudine, figlia prettamente del background hardcore in cui l’artista è cresciuto, che fa tornare l’essenza del rap al suo stato brado, ovvero rendendolo in grado di convogliare attraverso una base strumentale ed un microfono tutta la rabbia e il disagio e di trasformandole in rottura, rifiuto incondizionato della realtà. Un’ indole più realista e “di strada” che dà la scossa ad un rap italiano oggi sempre più annichilito e patinato, salvo qualche eccezione. In “Midnite” Salmo si fa traghettatore inconsapevole di una generazione sempre più sofferente ed impotente ma che ha voglia di urlare in faccia a tutti la propria frustrazione, senza alcun filtro, nuda e cruda portandola ai limiti estremi. Un sound oscuro e ruvido ricco di contaminazioni che spaziano da violente basi synthpunk e dubstep che sparano diretto in faccia tutto il malessere e l’inquietudine della nostra epoca per poi rallentare e mescolarsi a brani più morbidi dai beat più convenzionali , sfociando in alcuni casi in retaggi reggae da dancehall. Sonorità forse non particolarmente avanguardiste a livello internazionale ma che portano una forte ventata di cambiamento nel rap nostrano. Merito, oltre ai brani autoprodotti, anche delle numerose collaborazioni presenti. Su tutti i Cyberpunkers, massimi esponenti a livello mondiale della musica elettronica oltre a Shablo, Big Joe, B.Gil, Stabber e Anagogia. Featuring di tutto rispetto anche nel rappato con Nitro, Noyz Narcos , Mezzosangue, Gemitaiz e Madman.
Fin dal primo ascolto l’album appare complesso e ricco di sfumature dove è difficile trovare una continuità sia sonora che concettuale tra una traccia e l’altra durante la durata dei 42 minuti. L’unica prospettiva dalla quale si può partire per un qualsiasi tipo di interpretazione è il concetto di mezzanotte sviscerato in ogni sua formula in tutti e 13 i brani . Una mezzanotte terrestre eterna, un'ora zero che blocca il progredire del tempo e impedisce lo sbloccarsi della situazione desolante di precarietà ed immobilismo forzato dei nostri tempi. Uno spazio concettuale in cui non c’è una via d’uscita se non nello scetticismo espresso verso il fallimentare sistema politico odierno in Old Boy, nella denuncia sociale e conseguente chiamata alle armi in nome di Rob Zombie, nel rifiuto dell’insana ricerca del successo facile ed immediato attraverso i talent show in Russel Crowe oppure in quella perenne sensazione di alienazione che prima o poi troverà sfogo nella violenza in un giorno di Ordinaria Follia o nelle derive feticiste di Sadico. Una dannazione che si proietterà irrimediabilmente negli scenari fantascientifici del futuro apocalittico ed infernale diWeishaupt dal quale non si potrà far altro che fuggire come espresso in Space Invaders. Una prospettiva fin qui catastrofica e disillusa che va a stridere fortemente con le altre tracce dell’album più introspettive e riflessive. I beat rallentano, la voce da rabbiosa muta e assume toni quasi confidenziali. In S.A.L.M.O. l’artista si apre dando una traccia di speranza esortando a non mollare, ad andare avanti esattamente come lui, nella continua ricerca di una direzione da prendere. Fino ad arrivare all’ultima traccia, Faraway, una ballata inaspettata ma comunque intensa, ben riuscita, mai banale.
Un album quindi dal ritmo “sincopato” spiazzante ed imprevedibile che colpisce l’ascoltatore accentuando quella sensazione di paranoica instabilità volutamente espressa dall’artista. Tutto questo viene accentuato dall’ innata capacità di Salmo nel descrivere la realtà con estrema credibilità e crudo realismo non preoccupandosi minimamente di raggiungere il consenso più ampio ma proseguendo per la sua strada, prendendo le distanze dal mondo circostante ma allo stesso tempo immergendosi in esso filtrandolo attraverso i suoi occhi. In conclusione “Midnite” racchiude la prospettiva dura ma sincera di un artista dannato e complesso, risorto dall’inferno per portare nel panorama rap italiano un progetto musicale di innegabile portata rivoluzionaria. 



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The Love Dimension
Not Until All Beings Are One EP
2013
Smoky Carrot Records




E’ praticamente dal 2008 che i sei ragazzi di San Francisco, Jimmy L. Dias (chitarra e voce), Celeste Obomsawin (voce, percussioni, flauto, armonica e megafono), Devin Farney (tastiere), Sonny Pearce (batteria), Scott Hawkins (chitarra) e Tommy Anderson(basso), non smettono di offrirci del garage rock psichedelico di alta qualità. Il sound di questa band è un tuffo letterale nella San Francisco a cavallo tra gli anni 60 e 70, una città ancora sognatrice, all’apice di un fermento artistico e culturale che di lì a poco avrebbe contaminato l’intero mondo occidentale. Numerosi sono gli accostamenti ai grandi del passato che emergono fin dal loro primo ascolto. Dai primi Jefferson Airplane ai Grateful Dead, dal folk a tratti Dylaniano al surf pop versione Beach Boys. In realtà la band vive di uno stile proprio e non facilmente definibile, figlio di una moltitudine di generi ed influenze egregiamente mashati tra loro e riproposti sotto nuove chiavi d’ascolto. Le ritmiche ossessive di basso e batteria, le voci sature su chitarre acide e distorte, fanno di questo EP un mix perfetto di sonorità psichedeliche ricche di venature garage,surf, rock’n’roll, blues, country, punk e chi più ne ha più ne metta. Un vero e proprio trip sonoro che parte con le melodie folk beat di The Lighthouse Of Your Mind accompagnate da chitarre “jangly” dai forti richiami al sound madchester dei primi anni 80, per poi proseguire con le altre tre tracce più facilmente identificabili in un territorio principalmente garage con sfumature rockabilly in Down The 101 ed atmosfere più psichedeliche con Can You Feel Me.  Merita un discorso a parte la rivisitazione di Heart full of soul degli immensi Yardbirds. Il pezzo, molto più tirato e lisergico dell’originale, strizza l’occhio ad una delle band più influenti della scena R’n’B/garage britannica degli anni 60, rendendole pienamente omaggio con una versione nettamente più “californizzata”. Una piccola chicca che contribuisce non poco a far crescere l’acquolina in attesa della loro, ormai prossima, terza fatica discografica.