venerdì 24 ottobre 2014

Review

Give My Love To London
Marianne Faithfull
2014
Naive


Amore, tormentato e profondo, per la sua Londra. Rabbia, contro l’umanità e lo stato sempre più pietoso in cui si sta riducendo. Malinconia, per coloro che trovano nel dramma della droga un sicuro rifugio da un mondo sempre più ostile ed incomprensibile. Speranza, ritrovata nel sorriso di un bambino e nella fiducia verso le nuove generazioni, che riusciranno con la loro purezza a comprendere ed abbattere il male dei nostri tempi traghettandoci verso una rinascita sociale, verso un futuro più roseo.   
Sentimenti estremi, posti agli antipodi della percezione umana, mescolati in un delizioso e passionale vortice di sonorità chiamato “Give my love to London”, il nuovo album della cantante ed icona pop britannica Marianne Faithfull, il 20° in 50 anni di onorata carriera celebrati da un tour europeo che partirà in autunno e toccherà anche l'Italia in due date: lunedì 27 ottobre all’Auditorium di Milano e martedì 28 ottobre al Teatro Del Giglio di Lucca.
Marianne ne ha fatta di strada da quel lontano ‘64 in cui, poco dopo esser stata notata dal manager degli Stones Andrew Loog Oldham, si ritrovò a scalare le classifiche di mezza Europa con la sua dolcissima rilettura di ‘As Tears Go By’ targata Jagger-Richards .
Bellezza ammaliante, eleganza, talento artistico e dannazione; la perfetta rappresentazione della femme fatale baudeleriana. Inquietante ed attraente, dalla vita costellata di eccessi, scelte sbagliate e mille contraddizioni.
Dall’olimpo delle riviste patinate e del successo in piena era “swinging”, al baratro della tossicodipendenza e dell’isolamento, poi la rinascita con “Broken English”, un capolavoro che ne ha sancito il ritorno sulle scene.
Una rinascita ritrovata nella forza d’animo e in nuove forme d’espressione artistica, attingendo a piene mani da un pesante e ingombrante bagaglio di vita, che si rivelerà essere fondamentale fonte d’ispirazione per una capacità di scrittura e composizione fuori dal comune.
Nel suo recente percorso artistico la cantante è riuscita a ritrovare se stessa e la giusta chiave compositiva avvalendosi della preziosa partecipazione di amici di sempre nonché talentuosi musicisti.
Proprio come i numerosi ospiti chiamati a collaborare per il nuovo disco. A cominciare dalla band, composta da Adrian Utley (Portishead) alla chitarra, Jim Sclavounus e Warren Ellis (Nick Cave & The Bad Seeds) rispettivamente batteria e violino, Ed Harcourt alle tastiere e dalla stessa produzione artistica di Rob Ellis (batteria) e Tikovoi (basso).
Si aggiungono poi le prestigiose penne di Roger Waters che ha scritto per lei l’ipnotica “Sparrow will sing” con quel martellante giro di piano immerso un oceano di distorsioni che richiama alla mente la velvettiana psichedelia di “I’m Waiting for the Man”; Nick Cave con la funebre ballad "Late Victorian Holocaust", mix letale di piano ed archi uniti ad un vibrato tanto sgraziato quanto struggente da permettere alla cantante di scagliare dritto allo stomaco di chi ascolta, tutto il suo dolore in un crescendo continuo di rara intensità; Anna Calvi, appartenente alla più recente generazione di artisti, con “Falling Back”, brano dal retrogusto pop orchestrale; e ancora, Pat Leonard nella furiosa ed onirica “Mother Wolf” con la voce di Brian Eno tra i cori; Steve Earle nell’ opening track dell’omonimo album “Give my love to London” ed il suo sound dal folk ritmato, per finire con Tom McRae presente nella melodica “Love more or less”.
Un lungo elenco di artisti al quale vanno ad aggiungersi due preziosi omaggi: il primo all’immenso Leonard Cohen con la rivisitazione di “Going Home” ed il secondo agli Everly Brothers con la cover di “The Price of Love” deliziosa perla RnB realizzata nel ‘65.
Nonostante la partecipazione di numerosi nomi alla genesi di questo album, la sensazione che ne emerge fin dal primo ascolto è di incredibile coralità compositiva. Ogni singolo protagonista appare come la naturale estensione artistica della cantante. Undici tracce, l’una stilisticamente diversa dall’altra, ma preparate con meticolosa dedizione e perfettamente vestite sul corpo una donna in grado di mostrare tutt’oggi con orgoglio e coraggio le ferite ancora aperte di una vita, mettendo a nudo ogni singola sfumatura della sua anima.
“Give my Love To London” è un album che tocca l’anima. Passionale, diretto, imprevedibile e dal forte potere evocativo, circondato da un’aura di malinconica e affascinante decadenza. Una creazione da annoverare senza alcun dubbio tra le migliori di una lunga carriera artistica.



Review

Italian Market
The Remington
2014
Electric Spaghetti


Si chiama Italian Market ed è l’album d’esordio dei Remington, cinque ragazzi milanesi cresciuti con il pallino per il Blues, il Folk Rock, la Psichedelia, l’RnB bianco d’oltremanica e d’oltroceano .  Sonorità sicuramente mid 60’s dal taglio piu’ classico, ma racchiuse con freschezza e personalità esecutiva in nove tracce dal groove energico e allo stesso tempo elegante.
Con un’attitudine tipicamente brit, i Remington presentano un lavoro discografico di notevole forza compositiva. Un sound collettivo e trasversale, a tratti  melodico, a tratti caratterizzato da arrangiamenti più aggressivi e taglienti. Un disco composto da diverse anime musicali che vanno dal pop psichedelico di forte matrice beatlesiana in “A day at home” alle chitarre jingle-jangle stile R.E.M di “Days of freedom” passando attraverso i travolgenti giri di hammond d’ispirazione acid-jazz in “Time for Loosers” e “Carry On”, o la virata verso le elettriche tinte glam rock in “A night in the city”, per concludere con gli arpeggi intensi, gentili e sognanti di rock ballad come “Live it all behind”e “Triyng”.
Anche la componente testuale ha la sua rilevanza. I brani, scritti rigorosamente in inglese e dalla ricercata struttura metrica, raccontano, tra picchi di sarcasmo e malinconia, spaccati di vita di un ragazzo cresciuto nella periferia milanese. Le sue ambizioni, i sogni, le disillusioni, le difficoltà ad affermarsi nella società odierna; temi narrativi fortemente attuali in cui non è assolutamente difficile immedesimarsi .
In conclusione, Italian Market è un disco di qualità da ascoltare attentamente traccia dopo traccia, vi accorgerete che quello che ne uscirà, non sarà altro che il risultato del lavoro corale di cinque ragazzi legati da forte amicizia, passione per la musica e tanta voglia di suonare del sano e fottutissimo rock’n’roll.


Live Report


Un altro festival 2014 @ Magnolia – Milano 15/07/2014 Live report della seconda giornata.

Foxhound, Telegram, Temples, The Horrors e Dandy Warhols.


La seconda giornata di Un altro festival si apre all’insegna del bel tempo. Spazzato via ogni timore sulle condizioni meteo, si riparte mantenendo sempre lo stesso assetto del giorno precedente, due palchi cinque band. Questa volta spetta ai Foxhound aprire le danze. Dopo l’esordio al Primavera Sound Festival di Barcellona lo scorso anno, dopo l’opening set a Peter Hook e XX nella nona edizione del Traffic festival di Torino, oltre ai numerosi concerti nelle principali venues di tutta Italia, i quattro giovanissimi ragazzi torinesi si affacciano dal second stage del Magnolia mettendo immediatamente in risalto talento e freschezza esecutiva proponendo brani estratti dai loro due dischi “Concordia” e “In Primavera”, pubblicati rispettivamente nel 2012 e 2014. Il loro è un indie rock misto a punk e folk con estremità dance pop e funk dal giusto tiro. Un genere in realtà molto complesso da definire ma che scalda ben bene il pubblico della prima ora strappando apprezzamenti e numerosi applausi. Una band da tenere sicuramente sott’occhio nel panorama indie nostrano.

Qualche minuto alle 20:00 ed arriva il turno degli anglo-scozzesi Telegram. Un quartetto che, stando a quando scrive il Guardian, si prepara a divenire uno dei gruppi cardine della nuova scena psichedelica inglese. I Telegram, capitanati da un energico Matt Saunders, si muovo con personalità sul palco stimolando e coinvolgendo continuamente i presenti. La band per ora ha all’attivo solo una manciata di singoli tra cui “Under the night time” e “Follow” (quest’ultimo, il singolo d’esordio, registrato a Londra dal produttore Dan Carey) che vengono sparati a tutto volume in un’ottima amalgama di psych e kraut-rock misto a shoegaze e proto-punk. Sonorità che catapultano immediatamente in atmosfere tipiche dei mid 60’s e 70’s rivisitate però in chiave moderna attraverso nuovi linguaggi digitali . Il risultato lascia tutti colpiti, annoverando anche questa band tra le piacevoli sorprese del festival.

Sempre rimanendo in tema di scena neopsichedelica inglese, dopo i Telegram è la volta dei Temples, senza dubbio tra le band più attese. Basta guardarsi un attimo intorno per accorgersi dell’ingente quantità di curiosi presenti sotto palco, notevolmente superiori a quelli del precedente giorno a Bologna, stando alle parole di uno stupito James Edward Bagshaw, cantante e leader della band (incredibilmente somigliante a Marc Bolan). Il disco d’esordio “Sun Structures” su Heavenly Recordings ha destato molte discussioni e pareri contrastanti scatenando un’epica battaglia tra chi considera i Temples l’ennesimo rimpasto psichedelico (i paragoni con i Tame Impala si sprecano) e chi vede nei quattro di Kettering i nuovi interpreti di un genere non solo ripreso ma elaborato attraverso chiavi interpretative moderne . Tralasciato ogni dibattito da salotto resta una sola certezza, i Temples hanno un talento innato e “Sun Structures” è uno dei dischi più interessanti usciti dall’ inizio del 2014. Armonie che si incollano addosso al primo ascolto, melodie dalle trame complesse ma allo stesso tempo orecchiabili ed attuali, incisi che si stampano in testa. Sonorità sature che rimandano inequivocabilmente alla psichedelia barrettiana, al pop dei Kinks, al rock di Small Faces e Who con derive immaginifiche in perfetto stile progressive. Dal vivo la band esegue alla perfezione brani tratti dall’album come "Shelter Song” “Mesmerise” “Keep in the dark” “A Question Isn't Answered” più un paio di ep tra cui “Ankh”. Viene generato un mix multicolore di riverberi, riff ipnotici e potenti aperture al limite della percezione uditiva che vanno a spettinare letteralmente i presenti. A concerto finito non viene lasciato più spazio ad alcun dubbio, i Temples si preparano a divenire una delle migliori band britanniche degli ultimi tempi e lo si intuisce facilmente, anche senza gli elogi di Jonny Marr e Noel Gallagher.

Qualche minuto alle dieci e si torna sotto il main stage per il gran finale, in attesa dei due headliner della serata, The Horrors e Dandy Warhols. I primi appaiono sul palco avvolti in una densa nube di fumo tra effetti visivi e continui giochi di luci e penombre che ne accentuano notevolmente la già forte presenza scenica. La sagoma esile ed androgina di Badwan si staglia al centro del palco dando il via ad un’ora di esibizione intensa, raffinata, sognante. Si inizia con lo shoegaze di “Chasing Shadows” brano d’apertura del loro ultimo riuscitissimo lavoro discografico “Luminous”. Le continue contaminazioni electro-psych di “Who Can Say”o “Endless Blue” il post-punk di “Sea Within A Sea” e“Strange House”, lo space-rock della melodica “Still Life”, vanno a creare un sound dalle linee delicate ed ipnotiche di rara ed eterea bellezza. Continui intrecci tra chitarre elettriche e synth risucchiano il pubblico in un oscuro vortice di noise rock, newwave e goth, un dissonante viaggio notturno e decadente di forte impatto sonoro, diretto ed innovativo, tra strutture armoniche ricercate ed innesti interessanti nei motivi. Brani che possono apparire variabili impazzite come le eclettiche “So you know” e “I see you” vengono dominati con estrema padronanza tracciando un segno stilistico ormai facilmente riconducibile ad una indiscussa crescita artistica. 
Gli Horrors tengono bene il palco ammaliando i presenti e creando suggestioni degne della loro sensibilità compositiva. Il quintetto non delude le aspettative e regala un’esibizione all’altezza della sua piena fase di maturazione stilistico-musicale.
Spetta quindi ai goliardici Dandy Warhols il compito di chiudere la due giorni di milanese di Un altro Festival. Le atmosfere crepuscolari ed introspettive degli Horrors lasciano il posto al più energico e spigliato rock suonato dai quattro di Portland. Con nove album all’attivo e vent’anni di carriera alle spalle, sembrano ormai lontani i tempi in cui i Dandy Warhols giocavano in un avvincente botta e risposta con i Brian Jonestown Massacre a suon di provocazioni in ricercato stile shoegaze e psichedelico. Alla band piace vincere facile e vengono riproposte, una dopo l’altra, in un’ora e venti di concerto, le principali hit che hanno contribuito al raggiungimento del successo mondiale, più qualche brano tratto da This machine, ultima fatica risalente all’ormai lontano 2012. Un Courtney Taylor-Taylor in gran forma ( come le sue buffe trecce alla piccola squaw) assume immediatamente il controllo del palco ed introduce con personalità e sicurezza “Mohammed”. Niente inutili chiacchiere solo tanto buon rock’n’roll. La carica sprigionata da brani come “Godless” “Be-in” “We used to be friends” “Get-off” è devastante. Pochi e semplici accordi, riff micidiali e cassa in 4/4 scatenano i presenti. L’atmosfera si fa subito incandescente ed il pubblico divertito balla ed accenna un timido pogo sulle note di “Sad Vacation” e “Horse Pills”. Un sound seducente, dall’hype freneticamente schizoide, aggiunge ulteriore spettacolo all’esibizione di questi quattro ormai veterani del mestiere. Ma il momento topico, inutile dirlo, arriva con “We Used To Be Friends e “Bohemian Like You”, dove anche il più restio dei presenti cede all’effetto “saltello adolescenziale” perdendo miseramente anche l’ultimo stralcio di dignità rimasto in suo possesso. Semplicemente travolgente. Un finale da ciliegina sulla torta.  


Il concerto termina e con esso il festival. Anche se numericamente non ha regalato le stesse presenze del precedente anno, complice sicuramente la scelta della doppia venue, Un altro festival supera brillantemente ogni aspettativa presentando una manifestazione organizzata alla perfezione con nomi di qualità sia tra le nuove promesse che tra le band più affermate. Abbandonato quindi il suo stato embrionale, Un altro festival si trasforma di diritto nella nuova cenerentola dei festival indipendenti italiani. L’augurio é di poterlo ritrovare, nella prossima edizione, in una veste ancora più ricca e piena di novità accattivanti. 

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Live Report



Un altro festival 2014 @ Magnolia – Milano 14/07/2014 Live-report della prima giornata.

Kuroma, M+A, His Clacyness, Panda Bear e MGMT


Dopo l’elevata partecipazione dello scorso anno , ci siamo lasciati con l’augurio di poter vedere la scommessa “Un altro Festival” (manifestazione organizzata da Comcerto) poter crescere e concretizzarsi nell’ormai sempre più desertificato panorama italiano dei festival indipendenti. Detto, fatto.“Un altro festival” non solo torna nel 2014 ma “raddoppia” presentandosi in una formula del tutto innovativa che strizza fortemente l’occhio al modello dei festival europei  con una doppia line up a rotazione su due città. Confermata quindi la location Milanese al Magnolia si aggiunge quella Bolognese nel nuovo “Fiera District” (in collaborazione con il Covo Club). Una staffetta indie di due giorni che vedrà alternarsi sui palchi di entrambe le città artisti come MGMT, Dandy Warhols (tra i primi headliner ad esser stati annunciati) seguiti da Horrors, Panda bear, Temples, M+A, His Clacyness, Telegram, Foxhound e Kuroma.  
Apertura prevista per le 19:00, sotto un cielo sempre più cupo e qualche isolato colpo di tuono che va a minacciare sensibilmente la buona riuscita della prima giornata di festival, mi dirigo verso il Magnolia dando un rapido sguardo alla line up delle band presenti nella prima delle due giornate milanesi.   
L’apertura spetta ai Kuroma, band americana (Athens, Georgia) che nonostante la giovanissima età vanta già collaborazioni con MGMT , aperture al tour americano dei Primal Scream,  un paio di album (Paris e Psychopomp) ben accolti dalla critica dalla critica ed un Ep attualmente in promozione intitolato “Four Songs for Fifty States”. Sincronizzati perfettamente con il ferreo timing del festival,  alle 20:10 i Kuroma iniziano il loro concerto sullo stage principale del Magnolia davanti ad un drappello di cinquanta persone schierate sottopalco, noncuranti della pioggia scrosciante che ha accompagnato praticamente tutta l’esibizione. La band non si scoraggia, ringrazia i temerari presenti e rincara la dose tenendo molto bene lo stage con il pop psichedelico dalle derive punk rock di brani come “Evan Mann” “Big Bad Money” “Running people” e“20+Centuries”. Nonostante la pioggia battente, Il mood dei presenti è positivo ed i continui applausi tra un brano e l’altro ne sono la piacevole conferma.

Terminato il primo live, neanche il tempo di prendere una birra e subito si materializzano sul secondo palco  gli M+A,  il duo forlivese, vent’anni o poco più, che ha letteralmente stregato l’inghilterra con un brillante sound pop/elettronico arricchito da contaminazioni italodisco, bossanova , IDM e chillwave. Di ritorno dal Glastonbury festival gli M+A presentano “These days” secondo disco in studio, pubblicato per Monotrome records. L’atmosfera si distende, la pioggia smette di scendere e lentamente lo spazio sotto il palco inizia a riempirsi. Un beat incalzante unito a potenti armonie sintetizzate inizia a coinvolgere sempre più i presenti. Loro, polistrumentisti funambolici sul palco, si cimentano abilmente tra drum machine, strumentali su laptop, percussioni, batterie, vocoder, sintetizzatori e tastiere, senza mai una sbavatura, senza mai un’incertezza con precisione ed abilità tecniche spiazzanti. La gente danza divertita per trenta minuti sulle note di “When” “Freetown Solo” “Down the West Side” “New York there” riuscendo quasi a percepire la leggerezza ed i colori di un’estate che stenta ancora ad arrivare. Un’esperienza unica e coinvolgente assolutamente all’altezza dell’interesse conquistato all’estero dalla band.

Sono quasi le 21:30 , le nuvole si diradano definitivamente ed il pubblico comincia ad affluire in modo più consistente  distribuendosi principalmente tra l’area adibita alla ristorazione ed il main stage. E’ la volta degli His Clancyness, project band fondata dall’ italo-canadese Jonathan Clancy (coinvolto già in progetti paralleli come Settlefish e A Classic Education). Il concerto sarà dedicato principalmente a “Vicious” sua ultima fatica, più qualche brano estratto da Always Mist.  Sul palco, Clancy ,accompagnato dagli amici musicisti di sempre,  esegue brani come “Miss out These Days” e “Safe Around the Edges”ricchi di melodie pop sporcate da distorsioni kraut e continui riverberi psych in sessioni ritmiche costanti ed ipnotiche che, unite all’atmosfera crepuscolare di un sole che si prepara a tramontare lentamente, regalano un viaggio onirico suggestivo ed intenso che culminerà nella successiva performance con la sperimentazione elettronica di Noah Lennox alias Panda Bear.

Poco prima delle 22:00 il musicista di Baltimora (fondatore di Animal Collective e Jane), si presenta sul second stage dell’evento assieme alla sua workstation per eseguire alcuni pezzi tratti dall’ultimo album “Tomboy” e da “Person Pitch”. L’aria si riempie di trame sonore che generano un universo di microsuoni. Il concetto di forma canzone viene esteso fino all’inverosimile attraverso un trionfo di loop ipnotici, parti vocali filtrate in strane miscele di psichedelia e lo-fi ed altri suoni indecifrabili,il tutto condito da immagini che esplodono in una moltitudine di colori e forme proiettate alle spalle di un immobile Lennox, concentrato e al limite della sperimentazione elettronica. Circa un’ora di esibizione di altissimo livello a tratti forse troppo pretenziosa, ricca di architetture armoniche complesse spesso difficili da digerire appieno, adatte sicuramente ad un ascolto più attento e concentrato mal sposandosi di conseguenza con la frenesia e la superficialità di un approccio più “da festival”.


In chiusura, il secondo headliner della giornata, gli MGMT. Ore 10:45 lo speaker annuncia la band americana che fa il suo ingresso accompagnata da proiezioni visive sparate al limite dell’attacco epilettico. Andrew Vanwyngarden, testa arruffata e bizzarro saio bianco che arriva fino alle caviglie, si avvicina al microfono, saluta i presenti e attacca con Introspection (pezzo composto nel 1968 da Faine Jade) dando il via ad un’ora e trenta di live composta da dodici brani in scaletta, la maggior parte dei quali estratti dai due album di maggior successo, “Congratulation” e “Oracular Spectacular”. Contrariamente a quanto ci si aspettava, dedicheranno solo lo spazio di altri due brani (Alien Days e Cool Song No.2) al recente ed omonimo album. Il concerto decolla letteralmente con “Weekend Wars”, “Of Moons”, “Electric Feel”, “Time To Pretend”, “The Youth”, “Birds & Monster”, “Mistery Disease”. Andrew è a suo agio, introduce i brani, scherza con il pubblico, crea empatia. I pezzi vengono suonati con nuove chiavi esecutive, riarrangiamenti, estensioni, reinterpretazioni. Alcune più riuscite, come l’intervallo stile acid house di Kids con tanto di band che si scatena sul palco e pubblico in delirio; altre meno, come gli eccessivi ridondanti 13 minuti di “Siberian Breaks” che strappano qualche sbadiglio di troppo ai presenti. Eccessi a parte, i cinque sul palco dimostrano di esser cresciuti notevolmente e di aver acquisito col tempo abilità d’improvvisazione sempre più affinate e ricercate, figlie senza alcun dubbio dell’evidente nuovo cammino di ricerca e sperimentazione musicale intrapreso. E’ da poco passata la mezzanotte e sulle note finali di “Congratulations” si va a concludere nel modo più dolce questa piacevole prima giornata di festival.