domenica 15 luglio 2012

 Review

Paul Weller @ Roma Atlantico Live 10/7/2012
 A cinque anni e tre dischi dal suo ultimo live, Paul Weller torna nella capitale e lo fa in grande stile. Sulla qualità della sua performance molte sono state le conferme ma altrettante le novità. Cominciamo dalle prime. Il Modfather sembra non curarsi minimamente dell'età che avanza e dei molti anni ormai di carriera alle spalle, dimostrando quasi la stessa passione, energia e dinamismo di quando, con i suoi Jam, cominciava a muovere i primi passi verso il successo. Dopo ben trentacinque anni, Weller si diverte ancora come un matto, mettendo tutto se stesso in ogni singolo brano. Che sia proprio questo il segreto dei suoi repentini mutamenti musicali; si percepisce nitidamente che la sua innata predisposizione al cambiamento e al mettersi perennemente in discussione sia un modo per non generare mai inutili "ridondanze", trovando così sempre nuovi stimoli e di conseguenza mantenendo alto come sempre il livello di qualità delle sue esibizioni. 
Affrontiamo ora l'elemento "novità". La curiosità per questo concerto era molto forte proprio in virtù delle sue ultime pubblicazioni discografiche. Musicalmente parlando, infatti, si è presentato sul palco un Weller molto diverso dall'ultima esibizione del 2007. Abbandonate le sonorità Soul Pop e Rock di As is Now, il Modfather negli ultimi anni  si è  gettato totalmente in una trilogia di album sperimentali e avventurosi creati in simbiosi con il coproduttore Simon Dine. 
Partendo dal groove onirico misto a folk, jazz e world music di 22 Dreams , attraversando il puro rumorismo urbano con Wake up the Nation e approdando infine all'elettronico Sonik Kicks. Tre album che vantano numerose collaborazioni con i più grandi artisti del momento come Noel Gallagher, Gem Archer, Graham Coxon, Aziz Ibrahim, Wyatt persino Foxton, solo per citarne alcuni. 
Le critiche sono state innumerevoli, ma tutte prontamente zittite dai numeri . Il pubblico ha premiato questa coraggiosa scelta facendo raggiungere a queste pubblicazioni il successo commerciale più alto dai tempi di Stanley Road. Ennesima mossa vincente da parte di un artista che tutti danno per finito dal 1991, data che coincide col suo esordio solista. 
Il concerto ha soddisfatto pienamente ogni aspettativa accontentando un pò tutti. Gli estimatori della prima fase solista (Stanley Road, The Changingman, Into Tomorrow, Foot of the Mountain, Broken Stones), i più romantici legati alle sue "ballad" (All i wanna do is be with you, You do something to me), chi l'ha scoperto nel nuovo millennio ( From The Floorboards Up, Moonshine, Come On/Let's Go, Fast Cars Slow Traffic, Wake up The Nation) e persino i presenti Mods ed Punks, ma non solo, affezionati alle liriche taglienti e alla ritmica veloce dei Jam (Start, Art Scool, In the city). Trent'anni di carriera egregiamente riproposti in un perfetto mix di brani apparentemente molto diversi l'uno dall'altro ma eseguiti egregiamente grazie all'abilità di Crofts, Steve Cradock (in perfetto completo tonic), Andy Lewis (basso), Steve Lewis(batteria) e Ben Gordelier (percussioni). Un'esecuzione tirata, tutta d'un fiato, con pochi intervalli tra un brano e l'altro, il tutto intelligentemente rallentato solo da alcune fenomenali ballate che permettevano anche al nostro Paul di rilassarsi concedendosi una sigaretta tra un assolo alle tastiere e l'altro.
Unico piccolo rammarico è non aver potuto ascoltare neanche un solo brano degli Style Council, completamente assenti dalla setlist dell'evento. 
Sonik kicks, l' ultimo lavoro che ha giustamente occupato il 40% del concerto, merita un commento a parte. Al primo ascolto su cd, l'album può sembrare non molto digeribile. Forti erano perplessità iniziali riguardo un disco forse troppo ambizioso da parte dell'artista. 
Ma durante il live, il sound elettronico, affiancato a chitarre spesso distorte da echo/delay e wah nella sperimentazione quasi psichedelica di brani come Green, Drifters, Dragon fly, The Attic, il pop ritmato e sintetizzato di Paper Chase, That Dangerous Age e When Your Garden's Overgrown , il martellante riff aggressivo di Kling I Klang, hanno riscosso forte consenso e gradimento tra il pubblico. Dapprima silenzioso ed attento ma poi totalmente coinvolto nel mood riprodotto; su tutti, i sette minuti il dub penetrante di  Study in Blue con tanto di diamonica di sottofondo suonata dallo stesso Weller, pura sperimentazione. 
 Credo sinceramente che ogni dubbio iniziale sia stato completamente evaso. Dopo un'esecuzione di questo livello la sensazione finale è che Sonik Kicks, per essere pienamente apprezzato, debba essere ascoltato dal vivo, unico contesto in cui un album del genere riesce a sprigionare tutto il suo pieno potenziale. 
Weller colpisce e convince ancora, è incredibile come un artista del suo calibro che alla sua veneranda età potrebbe ormai vivere tranquillamente di rendita, riesca a mettersi continuamente in gioco, riusciendo, grazie soprattutto alla sua onestà artistica ed intellettuale, a conquistare regolarmente tutti.
 Serata quindi sopra le righe per Weller &co. peccato per l'Atlantico e tutto il suo staff, assolutamente non all'altezza della situazione. La pessima aplificazione, i continui "fischi" della strumentazione oltre al caldo asfissiante percepito a causa della totale assenza di un adeguato impianto d'aerazione, mettono in forte evidenza l'immagine di una città che riguardo a qualità di "spazi musicali" stenta ancora a decollare.
La speranza è che la prossima location possa ospitare in modo più dignitoso l'unico vero Re d'Inghilterra.




giovedì 12 luglio 2012

 What's New

Nuovo album postumo per Amy Winehouse
Mitch Winehouse, padre di Amy, ex tassista, ora a capo dell'ente benefico "Amy Winehouse Foundation" (associazione, fondata subito dopo la sua morte, che si occupa di elargire fondi per giovani che hanno forti problemi di salute o economici), ha annunciato in un intervista alla BBC che c'è del materiale inedito della figlia, in attesa di pubblicazione. Con ancora fresca di stampa la pubblicazione del libro "Amy, mia figlia"(gli incassi verranno totalmente devoluti in beneficenza), Mitch non si ferma e dichiara di voler pubblicare il secondo album postumo dell'artista dopo "Lioness: hidden treasures" dello scorso novembre (al debutto subito in testa alle classifiche vincendo poi due dischi di platino). Si tratterà principalmente di cover e di qualche inedito il tutto meticolosamente selezionato onde evitare di incappare in una potenziale "fregatura" per i milioni di fans. Il padre si è subito dimostrato intenzionato a non voler pubblicare "robaccia" bensì un disco che sia all'altezza dei precedenti, per il rispetto nei confronti dei fans ma soprattutto nei confronti di sua figlia. 
A poco meno di un anno dalla sua morte (23 Luglio 2011) si torna a parlare di pubblicazioni postume della cantante, ma non solo per mano del padre, è infatti di questi giorni la fruizione nelle radio inglesi di "Cherry wine", contributo postumo di Amy incluso nel prossimo album di Nas - "Life is good", atteso nei negozi il prossimo 17 luglio. Non solo Nas ma anche Pete Doherty ha deciso di utilizzare del materiale composto da Amy, in questo caso però si tratta di liriche. Proprio nel maggio di quest'anno l'artista si è detto intenzionato ad utilizzare qualche "scritto" della Winehouse ed inserirlo nel suo prossimo album solista. Nella metro di Camden Town, per l'anniversario della morte, è stata affisso un poster in suo onore. Il ritratto è opera dell'artista contemporaneo Johan Andersson, creato ad appena due settimane dalla morte della cantante. Morte avvenuta, come affermerà l'autopsia, per avvelenamento da mix di alcool e antidepressivi. Il cadavere è stato trovato proprio nella sua casa a Camden, una casa tutt'oggi circondata da lettere, fiori e souvenir lasciati dai fans di tutto il mondo ormai in continuo pellegrinaggio. 





Amy Winehouse sito ufficiale


lunedì 9 luglio 2012


Interview  

Mojo intervista gli Stone Roses
Dopo "l’eroico ritorno" (NME) on stage con i tre live ad Heaton park (220.000 biglietti venduti in poco meno di un’ora), gli Stone Roses arriveranno in Italia con un'unica data milanese, il 17 Luglio.  Nella febbricitante attesa per questo storico evento, vi ripropongo in versione integrale un' intervista, condotta individualmente su ogni componente della band, rilasciata per la rivista musicale inglese ‘Mojo’ nel 2002. Ian, John, Reni e Mani parlarono per la prima volta delle ragioni che portarono la band al definitivo scioglimento nel 1997. Un evento che i fans di tutto il mondo hanno vissuto con grande dolore, consci di aver assistito alla separazione di quattro ragazzi che stavano per diventare più famosi dei Beatles.

Hai mai provato una sensazione di nostalgia riguardo allo scioglimento degli Stone Roses?
John Squire: Posso dire onestamente che ho pensato alla band ogni singolo giorno  per un lungo periodo. Successivamente i pensieri ossessivi si sono tramutati in ricordi.
Mani: Ho visto John qualche mese fa. L’ho invitato ad una festa da me. Tra uno spinello e qualcosa da bere abbiamo iniziato a ridere dei bei vecchi tempi. Anche se la mia stanza era piena di gente, in quel momento non ci interessava granchè, eravamo solo io e lui. Durante questi anni non sono state molte le occasioni per reincontrarci, lo stesso vale per Ian e Reni.
Squire: Quest’anno sono finito a casa di Mani. E’ stato grandioso.  Ci siamo confessati a vicenda che nonostante siano passati svariati anni, ancora ci pisciamo addosso dalle risate ripensando ad alcuni episodi che ci sono accaduti all’epoca. So quanto gli sono mancati quei momenti.
Reni: Tutto ciò oggi mi fa sorridere. Nonostante faccia ancora male, cerco comunque di sorridere.

Quanto eravate vicini come amici?
Ian Brown: Eravamo fottutamente affiatati, come amici, musicisti, tutto. Credevamo molto l’uno nell’altro , una sensazione che non avrebbe mai dovuto sparire.
Mani: Come gruppo eravamo insuperabili. Avevamo una cosa che chiamavamo “L’uovo”. Noi quattro eravamo al suo interno e tenevamo alla larga chiunque volesse tentare di rompere il guscio. Avevamo addirittura un nostro linguaggio, una via di mezzo tra Unwinese ed Esperanto.


Ian, tu e John eravate molto differenti, ma siete diventati subito grandi amici.
Brown: John è una persona quiete e dotata di un “lato oscuro”. Io al contrario non ho nessun “lato oscuro”. Quando io e lui eravamo insieme sembrava di vedere un daino parlare ad un mulo. Non ho mai sentito  nessuno parlare come lui. Non era il classico chitarrista rock bensì un ragazzo composto e silenzioso, quasi inquietante, ma lo volemmo subito con noi,  sapeva parlare con le dita come pochi.
Squire: Ai tempi mi sentivo bene. Facevamo tutto insieme, le persone che conoscevamo, i vestiti e i dischi che compravamo, le droghe che provavamo. Tutto questo insieme di emozioni convergeva contemporaneamente nelle canzoni che scrivevamo. Ricordo che eravamo soliti provare nel down di un trip del giorno precedente, magari  ispirati dalle cose più semplici come le sensazioni che si provano la sera lungo una lenta passeggiata di rientro da una giornata di lavoro. Ero completamente coinvolto, amavo molto girare con loro, andare nei club , vestire allo stesso modo.
Mani: Non volendo turbare sua madre e suo padre, ricordo di esser stato affianco a john durante tutto il suo primo trip di acidi. Credo fosse l’83, eravamo nel suo vecchio appartamento in Zetland Road. Io john e Cressa (Steve Cressa, che diverrà poi lo stage-dancer degli Stone Roses) ci  siamo presi un acido a testa mentre ascoltavamo ‘Loose’ degli Stooges, la cosa è degenerata in poco tempo. Ricordo che siamo usciti per strada con le tette di fuori, successivamente abbiamo comprato dei gelati al cioccolato per poi spalmarceli totalmente addosso al fianco di conigli o altre cacate simili con i quali stavamo passeggiando.  Eravamo dei ragazzacci, fottutamente imbecilli, ma da questa goliardia riuscivamo a far uscire fuori della musica molto seria.

Quali erano le qualità aggiunte di ogni persona al vostro gruppo, di Reni ad esempio?
Squire: Era divertente. Ogni sua battuta era una risata di gusto. Devo dire che, tranne il sottoscritto, avevano tutti un ottimo senso dell’umorismo.
Mani: Se immagini quattro scimpanzé della Brook Bond (reclame di una marca di tè inglese) strafatti di ogni tipo di droga pesante, beh… potrebbe uscire fuori un’immagine molto simile a come eravamo noi realmente.
Brown: Io e john non facevamo altro che parlare della band e pianificarne il futuro. Quando eravamo insieme, il tempo volava. Quando scrivevamo le canzoni,  ricordo che impiegavamo due o tre giorni per una sola parola, perché quella parola doveva suonare perfettamente. Erano grandi giorni.

Quando avete iniziato a pensare seriamente alla musica?
Squire: ‘God save the queen’ mi ha realmente fatto pensare di voler iniziare a suonare la chitarra. Stesso discorso per la musica dei Clash. Mio padre,quando ero un ragazzino, tolse il trasformatore dai binari del mio trenino elettrico. Aveva una manopola per regolarne l’accelerazione. Lo modificò trasformandolo in un attrezzo per regolare la velocità del giradischi. Lo usavo per accordare la chitarra e far uscire le emozioni.
Brown: Quando avevo 17 anni frequentavo un Northern Soul club a Salford, il Black Lion in Blackfriars Street. Io e i miei amici pagavamo 15 sterline per affittare una stanza del locale e poter mettere i dischi, ma soprattutto per  poter andare agli all-nighters con i nostri scooters e caricarci sopra le ragazze , davvero.
Mani: Incontrai John per la prima volta ad un all-nighter northern al Pips. Incontrai Ian per la prima volta durante una manifestazione antifascista, ero lì assieme alla mia piccola gang di scooterboys di Manchester  nord.  Stavamo avendo qualche piccolo problemino con degli skinheads di zona quando sbucò  fuori Ian assieme alla sua crew di Manchester sud  per darci una mano.  La prima volta che lo vidi, nel caos della rissa, pensai subito, cazzo quest’uomo assomiglia a Galen del Pianeta delle scimmie. Visto che era la mia serie televisiva preferita, mi fu subito simpatico. Ancora oggi nella mia agenda accanto al suo numero c’è scritto ‘King Monkey’.

La band sembrava prendere vita molto lentamente.
Brown: C’è questa storia di me al ventunesimo compleanno della mia ragazza dell’epoca. Eravamo ad Hulme e a fine serata arrivò Geno Washington , staccava da uno spettacolo a Saltford. Quest’ultimo aveva già sentito esibirmi da qualche parte, si avvicinò e mi disse:”Ragazzo tu sei una star, dovresti diventare un cantante.” Giuro fino a quel momento non avevo mai preso la cosa sul serio, ma da quell’episodio le cose cambiarono. Allo stesso tempo John sembrava molto convinto a voler suonare la sua chitarra, mi domandò: ”Hai voglia di cantare?”. Inizialmente pensai potesse essere una cosa un po’ effemminata da fare, ma poi tra gli incitamenti di john e le parole di Geno che mi frullavano in testa, è accaduto qualcosa in me…qualcosa che ancora non so spiegare. Così, nel 1985, cominciai a dare un senso a tutto questo.
Squire: Ricordo le band in cui io e Mani suonavamo prima dei Roses. Inizialmente nn la prendevo seriamente. Coi Roses fu tutto diverso. Suonammo quasi subito in Svezia, dopo le prime esperienze sul palco, in me cambiò tutto, sentivo che quello che stavo facendo era troppo bello per non poterlo fare a tempo pieno. Avevo un buon lavoro, in uno studio d’animazione di Manchester, mollai tutto e non tornai più indietro, sentivo che quella era la giusta via.

Una delle vostre prime esibizioni fu al Moonlight di Londra, durante un concerto di beneficenza organizzato da Pete Towshend contro l’uso dell’eroina. Avete rischiato di farvi “rubare” Reni:
Squire: Pete ha invitato a suonare Reni con lui alla fine dell’evento. Ci parlò e ci disse che desiderava avere Reni nel suo prossimo LP. Noi pensammo:” Merda, Reni potrebbe andarsene, Towshend ce lo sta fregando sotto gli occhi”.
Reni: Non ho avuto mai il desiderio di andarmene, se non dal pub in cui eravamo quella sera dopo l’evento. Io facevo parte dell’unica rock band esistente nel pianeta in quel momento, Towshend aveva avuto solo gli Who fino a quel momento…no contest.
Squire:Fu incredibile, il ragazzo che suonava la batteria con noi era così forte da aver suscitato l’interesse di un tizio chiamato Pete Townshend, non potevo crederci. Ricordo benissimo che a fine concerto Towshend venne verso di me e mi abbracciò dicendo:” Laggiù qualcuno vi ha apprezzato molto”. Laggiù l’unica cosa che ho visto è stata una fichetta coi capelli impomatati e una camicetta di seta.
Brown: Non eravamo ancora nessuno. Tutto quello che pensammo fu che quella stronza fighetta voleva portarci via il nostro batterista. E poi Reni non aveva alcuna intenzione di lavorare con un vecchio figlio di puttana ormai alla fine dei suoi giorni.

Cosa vi ricordate delle prime esibizioni? Puoi raccontarci di quando suonaste a Liverpool davanti a 20 persone ed Ian scese dal palco tra la gente cantandogli in faccia, stava forse cercando di suscitare in loro una reazione?
Squire: Ian aveva uno slogan: “Se c’è anche una sola persona là davanti che lo merita, dagli tutto te stesso”.E’ sempre stata l’etica della nostra band.
Ian Brown: Nei primi concerti non riuscivo mai a stare sul palco, non c’era un pubblico numerosissimo e  mi piaceva sempre scendere tra il pubblico e cantare per coinvolgerli e per caricarli. Funzionava ed è una cosa che tutt’oggi la gente ricorda.

Una delle vostre migliori prime esibizioni?
Squire: Senza dubbio a Stoccolma nell’85. Erano veramente i primi concerti. Dovevamo esibirci per una quarantina di minuti. Dopo venti minuti di concerto lo spiazzo davanti al palco era ancora come al solito vuoto. Poco dopo vediamo arrivare in lontananza una gruppo di donne delle pulizie, si sono fermate ad ascoltarci per cinque sei minuti, subito dopo decisero all’unanimità di cominciare a smontare i tavoli con le sedie, e di dare una spazzata a terra mentre noi nel frattempo finivamo di esibirci.

Quali sono state le vostre principali influenze in quel periodo ?
Mani: Avevamo una sorta di lato “dolce” che usciva fuori dalla nostra musica molto influenzato da band come gli Stooges e gli MC5, gli Electric Prunes e i Nuggets. Da ragazzino adoravo Gary Glitter e gli Sweet.  Johnny Squire mi ha fatto scoprire Hendrix, ma in realtà i Clash erano il suo gruppo preferito. Reni mi ha frascinato verso i Funkadelic, Sly Stone e Miles Davis. Nella band John era il più Beatlesiano cmq mentre io e Reni adoravamo sonorità più Funkadeliche. E’ stato senza dubbio molto importante per tutti noi anche il Northern Soul, con Tommy Hunt o Little Antony and the Imperials. Dopo loro percepisci che non hai più nulla da ascoltare nella musica.
Brown: Amavamo tutti Jimi Hendrix e i Beatles. Io e Mani andavamo più sul reggae a volte ma John non era d’accordo. Le prime volte che incontrammo Reni tendeva molto verso l’heavy rock, veniva da Manchester est  una zona tradizionalmente heavy rock. Lo sfottevamo continuamente per questo. Ogni tanto John si chiudeva coi Deep Purple e Black Sabbath. Adoravamo tutti gli Who. Amavamo ogni genere di musica, dagli all-nighter northern soul alle band punk rock.
Mani: Molte persone elogiavano l’acid house perche permetteva loro di scatenarsi e ballare, ma io preferivo ballare col punk rock.
Squire:  Non ho mai tollerato quelle band che una volta raggiunto il successo affermano di non essere state mai influenzate dalle sonorità di nessuno dei “grandi”. Non hanno il coraggio di ammettere che band come gli Stones o i Beatles o Hendrix hanno dato loro tutto e continueranno ad avere molto da offrire ancora.
Mani: Molti gruppi sono molto furbi. Ma la realtà è che non sono in grado di unire e sintetizzare generi che in realtà amano e ascoltano. Per noi tutto questo è stato molto semplice.
Squire: Ero fissato coi Beach boys, adoravo una compilation con un uomo ed una tavola da surf in copertina (20Golden Greats). Improvvisamente venni colpito dai Clash. Io ed un mio amico di scuola li seguimmo ovunque per un lungo periodo. Facemmo amizia con Penny Smith, che era in tour con loro come fotografa, mi regalò alcuni loro scatti e ci promise che ce li avrebbe fatti conoscere una volta arrivati a Manchester durante il loro tour. Fu di parola, prendemmo un tè con i Clash, ma non riuscimmo a dirgli una sola parola dall’emozione. C’erano un sacco di ragazzi del loro staff della nostra età, molti da Stretford molti da Sheffield, era il London Calling tour.

Avevate una squadra attorno agli Stone Roses ?
Reni: Noi eravamo tutti un’unica squadra, abbiamo dato lavoro ad un sacco di nostri amici.
Squire: Tramite Steve(Adge) abbiamo conosciuto molti ragazzi in città. Alcuni erano nostri fratelli, altri cominciarono a venire a tutti i nostri concerti alla fine alcuni di loro iniziarono a lavorare per noi, uno su tutti Steve Cressa nostro “on-stage dancer”.

Rispetto agli altri gruppi voi eravate forti, idealisti e ambiziosi. All’International festival del Maggio ’98 sei salito sul palco con una campanella in mano ed hai cominciato a suonarla, l’ora del cambiamento era arrivata?
Brown: Volevamo colpire gruppi come gli U2. Loro erano diventati così pomposi e grandi ma in realtà non avevano più nulla da dire. Dovevamo rimuovere questa gente dalla testa delle persone, noi eravamo molto meglio di loro, ne eravamo veramente convinti.

Da dove uscivano fuori tutta questa certezza e questa tua attitudine?
Brown: Sono sempre stato così, non so da dove arriva. Mio padre è sempre stata una persona tranquilla. Non ha mai avuto ambizioni al di fuori della famiglia. Era una parte della mia personalità, non c’era nulla che potesse fermarmi. Sono cose che provi normalmente quando sei giovane ti senti inarrestabile ed invincibile. Sapevo che il nostro sound era molto più originale di molte band che ci circondavano. Per cominciare il nostro batterista era il migliore che avessi mai visto.
Squire: Reni era fantastico. Aveva un’attitudine particolare, noi non dovevamo far altro che “costruirci” attorno a lui.
Reni: Le mie influenze erano Bonham e John Paul Jones, Sly Stone e poi Mani, Ian e John.
Mani: Cominciò a suonare nel pub di mamma e papà fin da bambino imitando elvis o qualsiasi altra icona musicale.

Cosa pensavi degli altri quando di sei unito a loro?
Reni: Non pernsavo nulla. Persone affascinanti con la giusta repulsione anale, il giusto spirito di gruppo il tutto accompagnato da un pizzico di genialità.
Brown: Quando arrivò Mani, le cose cambiarono. Portò nella band il suo groove sensazionale. Appena arrivò facemmo subito un demo di Elephant Stone nell’87, suonava da dio. Da quel momento ogni cosa andò per il verso giusto.
Mani: Non chiedetemi come, ma mi sentivo come se fossi sempre stato lì. I miei eroi erano James Jameson, Paul Simonon e Peter Hook, cercavo semplicemente di fare un mix di tutti e tre. Ma quando m’imbattei in John e Reni, cominciai a plasmare il mio sound sul loro.
Reni: Mani è stato cruciale. Ha aumentato il nostro potenziale. Era il mio partner ritmico ideale nonché compagno di vita. Successivamente acquisii una ritmica più veloce, e i giri di basso divennero più funkeggianti.
Brown: Più o meno dalla metà dell’87 cominciammo realmente a fare della buona musica. Dalla fine di quell’anno non c’era giorno in cui non ci accorgessimo della nostra influenza musicale.
Reni: Dopo Mani non c’era più nulla che non fossimo in grado di fare.
Squire: E’ avvenuto qualcosa. Qualcosa forse di casuale, di sensazionale, la nostra gente cominciava ad apprezzare la nostra musica, giorno dopo giorno concerto dopo concerto.
Mani: Il mio primo concerto con gli Stone Roses è stato a Birmingham, dove suonammo davanti a 13 persone. La sera successiva suonammo a Manchester davanti a 1000 persone. Poi suonammo a Cardiff o a Hull davanti a 5 persone. Ma a Manchester, fin dai primi concerti dentro magazzini che poi regolarmente devastavamo, la gente ci seguiva.  Eravamo la più grande rock’n’roll band segreta.
Squire: Era giunto il momento di rischiare. L’album era lì. Avevamo sufficienti demo per  poterne pubblicare uno. Insieme abbiamo imparato a suonare, insieme siamo cresciuti musicalmente, insieme eravamo pronti a divenire una vera band.
Mani:  La musica dalle nostre parti stava vivendo un periodo buio in quel momento. Si OK avevamo gli Smiths e poi i New Order, ma dovevamo pure sorbirci i Kajagoogoo o quella merda simile. I tempi erano maturi, potevamo dare il nostro contributo.
Brown: Eravamo a conoscenza del nostro “potere” e di cosa poter fare con esso.

Questo “potere” vi ha mai spaventato?
Brown: Ogni giorno pensavo: “E se riuscissimo realmente a diventare grandi, che ne sarà di noi? Qualcuno cercerà di fotterci o finiremo per crepare, come tutti”.  Ho sempre pensato di volermene andare all’altro mondo normalmente. Pregavo di poter rimanere sempre me stesso, qualsiasi cosa fosse accaduta, ed è quello che mi ripetevo continuamente poco prima di sciogliere la band.

Davate l’impressione di essere una band veramente arrogante, come se nessuno fosse in grado di fermarvi
Squire: Ciò non è mai stato pensato. Neanche una notte, in cinque anni di prove, merdose registrazioni e qualche demo tape più decente. Puntavamo semplicemente in alto, ai Pistols, ai Beatles, ai Byrds. Provavamo semplicemente ad accrescere il nostro livello musicale, in questo non ci vedo nulla di arrogante.

Non sembravate fare assolutamente parte della scena indie di Manchester in quel periodo.
Brown: C’era un bella scena underground a Manchester nell’86 ,band interessanti e la gente ci piaceva davvero.  Ma alla fine tutti venivano a sentire noi, Perry boys, punks, goths o semplici studenti.
Squire: Andavo all’Hacienda prima che divenisse un dance club, seguivo lì band come The Jesus and Mary Chain o gli Orange Juice.  A loro differenza non ci siamo mai radicati nella città e non eravamo parte di nessun tipo di scena.
Mani: Dal 1988, la domanda più frequente a Manchester era “Perché non l’hanno creata?”.
Brown: La Factory era una mafia. E’ vero gli Smiths ci hanno sfondato, ma anche loro hanno avuto bisogno del consenso e l’approvazione di Tony Wilson e della sua cricca. L’unica alternativa era l’Hacienda, ma suonare lì era come acchittarsi un concerto dentro casa.  La gente allora cominciò a dirci: “Perché continuate a perdere tempo qui? Dovete scendere a Londra e far conoscere le vostre facce”. Ma non credevamo fosse la cosa giusta da fare. Dovevamo continuare per la nostra strada, anche se era quella sbagliata, ma era la nostra strada. Fino a quando nell’’89 il programma musicale ‘The other side of midnight’, fondato proprio da Tony Wilson (tralaltro le immagini dell’evento sono state stampate nel folder del primo album), ci ospitò in prima serata e da lì le cose cominciarono a girare.


Avete registrato il primo album velocemente, in tre giorni o qualcosa di simile
Mani: Provavamo da sempre. Da quando conosco John non ho fatto altro che provare tutte le notti a casa sua. Dovevo prendere ben tre bus da North Manchester per arrivare fino a casa sua, con il mio basso sulle spalle. Suonavamo a volte tutta la notte senza fermarci mai. Lo stesso valeva per gli altri.
Brown: Abbiamo provato molto per quell’album. Era quello che desideravamo da cinque anni, non c’è voluto molto per registrarlo, pura passione.
Reni:  Abbiamo riarrangiato le canzoni all’infinito fino ha quando non hanno assunto un sound unico.
Mani: Non avevamo nulla da perdere. John aveva un lavoro in quel posto di merda. Lo stesso era per gli altri, ci eravamo rotti il cazzo di prendere ordini tutti i giorni per portare a casa qualche manciata di sterline al mese. Non che avessimo mai interpretato la musica come una professione o un lavoro, era semplicemente la nostra vita.

Quanto hanno pesato le droghe nella vostra band?
Mani: Giravamo ognuno nella casa dell’altro, fumando spinelli tutto il tempo. Alcuni di noi fumano tuttora. Ci piacevano i trip. L’unico che non era molto legato alle droghe era Reni, lui non ne aveva bisogno, era già sballato di suo.
Brown: Vivevamo di sola musica. Iniziavamo a suonare alle dieci di mattina e smettavamo alle sette di sera, tutto questo cinque o sei giorni su sette. Dopo aver provato ci ritiravamo a casa di uno di noi e parlavamo di musica fino alle tre del mattino. Tutto questo avveniva ogni singolo giorno.
Mani:  John non faceva altro che lavorare lavorare lavorare, non voleva quella vita. Tutto ciò che desiderava era un Portastudio, un campionatore e la sua chitarra. Ogni grande band dovrebbe ragionare in questo modo.  Io al contrario sono sempre stato un bastardo fancazzista, e di fancazzismo glie ne ho attaccato molto.
Squire: I demo venivamo spediti, ma tornavano puntualmente al mittente. Ma per una volta questo non avvenne, anzi due. Ben presto finirono sul nostro tavolo due proposte di contratto, una da parte della Rough Trade e l’altra da parte della Zomba. Ricordo che la cosa ci portò in confusione. Alcuni di noi preferivano la Zomba altri la Rough Trade. Il nostro manager spingeva verso la Rough Trade, l’etichetta secondo lui più attiva al momento. Alla fine optammo per la Zomba. Il resto della storia la conoscete.

Se si fosse ripresentata un’occasione simile, quali errori non avreste ricommesso?
Squire: Sicuramente non saremmo stati nuovamente precipitosi, abbiamo praticamente stipulato il contratto del primo disco,ma anche del secondo, a telefono. Senza preoccuparci di clausole e contro clausole.
Mani: Potevamo ragionarci un pò più sopra. Ma le cose si stavano muovendo così velocemente da non lasciarci neanche il tempo di pensare.

Avete guadagnato qualcosa dal primo album?
Mani: Il disco avrà venduto qualcosa come tre milioni e mezzo di copie, ma noi non abbiamo visto un solo fottuto penny. Ma si tratta di un classico per tutte le band agli esordi dai Big star agli MC5.

Quanto sono stati importanti i tuoi omaggi a Jackson Pollock per il successo dei vostri dichi?
Reni: Il 99% del merito è legato alla nostra musica. Ma devo ammettere che erano delle grandi copertine!
Squire: Quei dipinti sono stati molto importanti per me, ma l’imbarazzo che qualcuno potesse vederli è sempre stato forte. E’ stato Reni ad incoraggiarmi a farne uno per il primo album. Rimase così stupefatto che decidemmo di pubblicare così anche tutto il resto.
Reni: John fece un grandissimo lavoro e meritava la giusta attenzione. Era molto sensibile e spesso incompreso, meritava un po’ d’incoraggiamento. Il risultato è sotto gli occhi di tutti.
Squire: Copiai semplicemente Pollock perché credevo che non ci avrebbero mai permesso di riprodurre le sue opere sui nostri dischi. Ho semplicemente copiato, la gente ha apprezzato molto, poi sono arrivato alle chitarre.

Con i limoni sulle copertine del disco e la canzone ‘Bye bye bad man’ avevate i situazionisti e gli scontri della Parigi del ’68 in mente?
Squire: L’idea è stata di Ian, incontrò un uomo che gli raccontò di essere stato picchiato assieme alla sua ragazza durante una manifestazione nel ‘68.
Brown: Incontrai quest’uomo durante un viaggio in Europa, prima che la band partisse realmente. Aveva girato con questo limone in tasca per anni. Lottò in prima linea durante gli scontri a Parigi e mi diceva: “Se tu succhi questo limone, alcuni degli effetti del gas CS svaniscono, così puoi continuare a combinare qualcosa”.
Squire: Abbiamo sempre ammirato queste persone. Non solo per la loro politica, ma anche per i loro vestiti e per i loro capelli. Al tempo c’era un programma documentario sulle rivolte politiche dell’epoca, ora non ricordo bene il titolo del programma, ma ricordo che durante gli scontri andava sotto ‘Won’t get fooled again’. C’era un gran filmato di un ragazzo in giacca tre bottoni  e frangetta che si appostava accanto ad una barricata ed iniziava a tirare sassi alla polizia.
Brown: Adoravamo quelle azioni ed il modo in cui erano vestiti. Erano fottutamente stilosi da farti pensare: ”Hey, questi stanno andando a lavorare in banca non a fare scontri”. La cosa ci esaltava. C’era una rivista che adoravo chiamata “The Anarchists” in cui c’eramo moltissimi scatti di questo tipo. Adoravo anche i loro slogan, tipo “Usa i media, non permettere loro di usare te”. Ed è stato anche uno degli stogan dei Roses assieme a molti altri. Le loro idee erano molto potenti, alle quali spesso ci siamo ispirati.
Mani: Siamo sempre stati tremendamente politicamente e socialmente “consci”, basta ascoltare i testi dei nostri brani. Mai legati all’amore o cose simili ma solo “di parte”.

Eravate politicizzati fuori dalla band?
Squire: Manifestavo molto per le cause dei minatori fino a quando non realizzai che non sarebbe mai cambiato nulla.
Mani:  Ognuno di noi ha provato a vendere almeno una volta nella sua vita “Il lavoratore Socialista”, addirittura il nick-name di Squire divenne all’epoca John red. Vedevamo qualcosa dello spirito della Parigi del ’68 riflessa nell’acid movement. Le persone cominciavano a radunarsi ma il governo non lo permetteva. Il nuovo e repressivo disegno di legge non è stato altro che l’azione di un Estabilshment che si stava sentendo sempre più minacciato da quello che stava avvenendo. E’ facilmente intuibile.

Mani, è ormai noto che tu fossi,nella band, il più assiduo frequentatore dei “party animal”. Come sei sopravvissuto all’ acid house?
Mani: le serate all’Hacienda con Shaun Ryder e gli altri, finivano sempre a casa mia. John non è mai stato un amante dei club. Io e Ian adoravamo l’acid house. John era il classico chitarrista. Noi invece volevamo rimanere svegli tutta la notte e rimorchiare le ragazze. Puntualmente il giorno dopo alle prove Squire s’incazzava con noi dicendo:  “Se devo entrare nei locali è solo per ascoltarne la musica e di conseguenza comporre qualcosa di interessante, non per tirarmi fuori le tette e ballare come dei colglioni”. Fu in questo modo che cominciò a nascere Fools Gold. Con un giro di basso molto ispirato alle ritmiche dei giovani Mc di quel periodo.

Con Fools Gold vi siete sentiti parte della scena acid house?
Brown: Non abbiamo mai suonato acid house, ma l’abbiamo sempre apprezzata. Quando vivevamo a londra nell’88 io e Mani andavamo sempre allo Shoom e al Lando f OZ, John e Reni non uscivano spesso invece.
Mani: John in quel periodo stava cominciando a chiudersi nella tecnologia. Batterie elettriche ed effetti vari.
John: Cominciai ad appassionarmi alle ritmiche fuknkeggianti di James Brown. Tutto cominciò con un suo disco comprato in un negozio di dischi a Manchester. Ero semplicemente attratto dalla copertina di quel disco, un pugno nero con scritto su Black Power. Mi innamorai di quelle ritmiche e di quella batteria funk e ci scrissi su un pezzo.  Proposi qualcosa al resto del gruppo ma non raccolsi approvazioni. Su tutti Reni, che si sentì fortemente messo da parte.
Mani: Molti ci hanno associato ai Can per questo brano. Lo stesso Bobby Gillespie ce lo disse, ma in realtà non conoscevamo assolutamente questa band.
Brown:  ‘Fools Gold’ è stato uno dei migliori brani che abbiamo scritto, assieme a ‘Begging you’. Hanno un sound come pochi altri brani al mondo. Semplicemente un groove killer.

Quando le cose sono iniziate ad andare per il verso sbagliato?
Mani: Forse dopo il primo LP. La situazione ha cominciato a sfuggirci di mano.
Brown: Dopo il primo album avrei dovuto rimanere sul palco ed abituarmi a quella sensazione. Le piazze erano divenute troppo grandi.  Le cose andarono al di sopra delle più rosee aspettative . Non riuscivo a credere a quello che stava accadendo. Avremmo semplicemente dovuto superare il tutto e rimetterci a lavoro.

Mani: Eravamo come una piccola palla di neve che scendeva sempre più veloce da una montagna, stavamo diventando sempre più grandi senza neanche accorgercene. A volte la cosa mi colpisce ancora. Mi siedo e penso, cazzo è realmente accaduto.
Squire: Spesso mi svegliavo nel pieno della notte e mettevo in dubbio ogni cosa. Non riuscivo a capacitarmene, era realmente successo.
Mani: Ad un certo punto, non appena le cose iniziarono a funzionare, qualcuno tirò il freno a mano e tutto andò storto. Mio padre morì, Philip Hall il nostro pubblicista morì, mia madre ebbe un infarto. Il tutto mi fuse letteralmente il cervello. Ci fottemmo un pò tutti il cervello, la pressione, lo stress i problemi con la FM Revolver. Tutto questo ci distrasse dall’unica cosa da fare, un secondo album subito per diventare la miglior band di sempre.
Squire: La buona musica non è mai solo frutto di duro lavoro. E’ pieno di persone al mondo che lavorano duro senza arrivare mai da nessuna parte. In situazioni rare avviene qualcosa di magico, ma non lo puoi controllare e arriva da non si sa dove, non si sa se si ripeterà.
Mani: Molte persone hanno percepito in Second Coming il colpo di grazia alla storia della nostra band. La gente si aspettava semplici canzoni pop come quelle che avevamo scritto cinque anni prima in un album prepuberale. Dopo quattro anni di inattività eravamo cresciuti molto non solo musicalmente e volevamo dimostrare loro che potevamo fare ben oltre.
Brown: Era passato troppo tempo dall’ultimo album, non avremmo dovuto impiegare quattro anni per pubblicare un altro.
Mani: Sfortunatamente perdemmo il nostro mojo. Abbiamo aperto la porta, l’abbiamo lasciata aperta e poi siamo andati a dormire. Nel frattempo gente come gli Oasis non ha dovuto far altro che alzarsi dal letto e cogliere l’occasione di varcare quella porta. Si sono egregiamente intrufolati, come nella favola della tartaruga e della lepre.
Brown: Erano semplicemente dei ragazzini di 17 anni quando diventammo famosi, ricordo che venivano entusiasti ai nostri concerti domandandoci cosa si provasse a divenire famosi.
Mani: Ci sono stati spesso momenti nella mia vita in cui mi sono fermato a pensare a tutto quello che avevamo perduto finendo in lacrime. Per me gli Stone Roses sono ancora una questione incompiuta. Mi piacerebbe tornare insieme un’estate per poi portare a termine il tutto. E’ la cosa giusta da fare. E credo che il mondo ne abbia ancora bisogno. Dopo la nostra fine, a prescindere dal fattore musicale, i mio più grande dolore è stato quello di aver perso dei veri amici. E di recente sto valutando molto più gli amici che la loro musica. Mi sono molto rammaricato di tutto quello che è stato scritto riguardo al nostro rapporto. Sono tutte stronzate nulla di più lontano dalla realtà. Ci volevamo veramente bene l’uno con l’altro. La vita senza problemi ed ostacoli risulterebbe noiosa. Non ho mai odiato nessuno dei ragazzi.
Squire: Mi guardo indietro e vedo che tra me e Ian c’era un grande rapporto lavorativo. Progettavamo sempre per la band, avevamo sempre le idee ben chiare, remavamo sempre verso la stessa direzione. Anche con Reni il rapporto era ottimo...Mani poi era l’ingrediente segreto. Sotto molti aspetti è veramente simile a me. Concede il suo lato più vero a poche persone, ed io sono tutt’ora tra quelle persone. Ma ad un certo punto ci siamo tutti allontanati l’uno dall’altro, non riesco a definirne neanche il motivo, è avvenuto così, improvvisamente.

Ti mancano?
Squire: Non è stato tutto rose e fiori...ma penso di si. Dopotutto stavo bene. Ma è una fase dell’età. Non credo sia possibile mantenere le cose uguali. Si invecchia, si hanno più responsabilità.

Quando è stata lultima volta che hai sentito un disco degli Stone Roses?
Reni: Un secolo fa. ‘Something’s burning’ , suonava bene. Grandi pezzi di chitarra, profondi sinuosi e “bluesly”. Ognuno di loro suonava bene.
Brown: Non so dirti, l’ho dimenticato. L’ho avuto, l’ho amato, ma ciò che faccio ora è qualcosa di differente. Sto lavorando con dei ragazzi fantastici, ottimi musicisti.
Mani: Qualche volta non siamo stati in serata, spenti o fuori fase, ma da qui ad essere pesantemente criticati ce ne vuole. Se le persone hanno preteso la perfezione da noi, potevano tranquillamente starsene a casa ad ascoltarsi il nostro cd, li di sicuro avrebbero apprezzato. Gli Stone Roses sono sempre stati così, tra la più vertiginosa delle cadute ed il volo più alto.

Le persone che vi incontrano per strada, esprimono ancora tutta la loro passione per voi?
Reni: Le persone più fighe quando mi vedono, fanno gli scongiuri. Ma sono abile a non farmi riconoscere grazie a magnifici travestimenti.
Squire: Se lo fanno non me ne accorgo. Ti racconto un episodio; durante una partita dello United, poco prima dell’inizio hanno passato ‘I am the resurrection’ ,ero accanto a mio fratello, che si stava prendendo una birra al bar, feci una smorfia pensando ad alta voce che questa canzone mi sembrava totalmente stonata. Un ragazzo vicino a me annuì e mi diede pienamente ragione. Allora avevo la barba ed i capelli lunghi, ero praticamente irriconoscibile. Fu divertente perchè lui non sapeva nulla. Si stava beatamente mangiando il suo pezzo di torta e annuiva guardandomi serenamente.

Dall’intervista appena letta è facile intuire l’intento, da parte dei giornalisti di Mojo, di far emergere l’aspetto più umano della band. Un’umanità che li ha caratterizzati come compagni di vita ancor prima di essere dei talenti accomunati dalla stessa passione per la musica. Un forte legame il loro, così forte e puro  da esser riuscito a far tacere tutte le false voci riguardanti la loro ingloriosa fine, volte semplicemente a far vendere un pò di carta stampata in più. Non siamo altro che di fronte ad un gruppo di ventenni provenienti dalle periferie di Manchester che non sono riusciti a sopportare sulle loro esili spalle il reale peso del successo planetario che tanto avevano millantato, forse in modo eccessivamente spavaldo e con un pizzico d’incoscienza, come giusto che fosee a quell’età.  Altro comun denominatore dell’intervista è l’elemento nostalgico che appare continuamente nei racconti e nei ricordi dei quattro protagonisti . Un sentimento cosi fortemente radicato, nonostante il passare degli anni, da rendere quasi irreversibile e facilmente prevedibile  il lento e tortuoso cammino che di lì a dieci anni li avrebbe portati  ad uno degli appuntamenti più importanti della loro vita, quello con la storia. 


domenica 1 luglio 2012


History Making

Northern Soul: Le radici della Club Culture
Sabato notte, periferia della città, locale affollato da gente sudata che balla con fervore fanatico per dimenticare ad ogni costo il grigiore ed i problemi della quotidianità, pura devozione per i dischi che il dj sta suonando, febbre che sale parallelamente al ritmo martellante e alla melodia da crepacuore in crescendo, i corpi s’avvicinano, il calore si diffonde e si mescola tra le persone, lo scorrere del tempo svanisce, restano solo l’attimo e la consapevolezza che tutto, quella notte, può accadere.
Sembrerebbe la tipica atmosfera di un club underground newyorkese di fine anni ’70, nulla di più errato. Siamo a centinaia di Km di distanza, verso la fine degli anni ’60, per la precisione a Manchester, in un locale chiamato Twisted Wheel, culla della nascita di un particolare fenomeno socio musicale, il northern soul.
Il northern soul è un genere particolare di soul basato su una ritmica molto veloce e martellante (detta uptempo) seguita da sonorità molto più complete e complesse rispetto ai semplici schemi del classic soul, grazie anche alla frequente presenza di fiati e archi ad accompagnare la voce dell’artista.
Il genere northern non è solo un tipo di musica ma un movimento che prese piede nel nord Inghilterra a partire dai tardi anni 60. Un fenomeno che nacque dall’amore e dalla totale devozione dei ragazzi del nord Inghilterra per la black music americana ed appartenenti alle fasce meno abbienti della società, che presero le distanze dalla musica progressive, dalla psichedelica, dall’acid rock, sempre più in voga in quegli anni nella swinging London del sud Inghilterra.
Tipicamente Working Class, il northern soul veniva ballato in immensi club ormai chiusi. Ex palestre popolari del dopolavoro inglese come il Wigan Casino o il Torch o il Blackpool Mecca dove ci si radunava solo ed esclusivamente per ballare il sabato sera.
Il northern soul non ebbe assolutamente a che fare con l’industria musicale e discografica dell’epoca ma riuscì a creare un proprio universo simbolico del tutto autonomo e lontano dal commercio. I miglioni dj della scena inglese come Ian Levine o Roger Eagle passavano nelle loro selezioni pezzi come ‘Going to happening’ di Tommy Neal, ‘Sliced Tomatoes’ dei Just Brothers o ‘Tainted Love’ di Gloria Jones, all’epoca vere e proprie rarità scovate direttamente tra fondi di magazzino o piccoli e sconosciuti negozi di dischi di Miami, Detroit o Chicago, città d’oltreoceano in cui si recavano per acquistare vinili magari scartati dal mercato discografico americano .
E’ facile vedere nella scena soul inglese le basi per la successiva nascita della “club culture”. Musica fruita attraverso l’utilizzo del vinile nei locali notturni, punti d’incontro per le scene giovanili underground, veri luoghi di evasione dagli standard o dalle regole imposte dalla società, un’attitudine che tutt’oggi rimane immutata.