mercoledì 26 dicembre 2012

Review
                                                                         
The Vaccines @ Milano Grandi Magazzini  13/12/2012.

Aggiudicarsi l'NME award come best new artist con il disco di debutto "What did you expect from the Vaccines", vincere un disco di platino primeggiando in tutte le classifiche europee, debuttare a settembre al N.1 in Inghilterra con "Come of Age" e venire etichettati come la miglior R'n'R band esistente al momento, credo siano risultati sufficientemente utili ad alimentare l'attesa per il ritorno dei Vaccines  in Italia; il soldout quasi immediato della seconda data milanese ai Magazzini Generali ne è la palese conferma, anche se, ad onor del vero, la location risulterà essere eccessivamente piccola e forse poco adatta ad ospitare un evento del genere.
Sotto una suggestiva cornice prenatalizia, siamo a metà dicembre e a Milano fiocca che è una meraviglia, mi dirigo verso i Magazzini carico di aspettative e curioso di poter capire se la qualità della loro esibizione riuscirà ad essere realmente all'altezza della fama internazionale ormai raggiunta.  Entro a pochi minuti dall'inizio, locale pieno, luci accese, in fondo alla sala una gigantografia in negativo dell'album "Come of Age" a fare da sfondo ad un palco già allestito e con gli strumenti al loro posto.
Ore 21:30, si spengono le luci e sull'intro di "Cum on feel the noize" degli Slade, Justin Young (voce, chitarra), Árni Hjörvar (basso, per l'occasione in completo Lakers di Bryant, fantastico), Freddie Cowan (chitarra), Pete Robertson (batteria) fanno il loro ingresso. Qualche secondo per raggiungere gli strumenti, un imbarazzante "ciao Milan!" e si parte subito in quinta con "No Hope" secondo singolo estratto dall'ultimo Album. Il pubblico si scalda immediatamente, orde di ragazzi cominciano a gettarsi sotto palco innescando una pericolosa spirale di spintoni e sgomitate che accompagnerà praticamente tutto il concerto, dal primo all'ultimo brano. Senza un'attimo di respiro, senza alcuna pausa tra un pezzo e l'altro, quasi divertiti dal massacro che si sta concretizzando sotto il loro occhi, i Vaccines rincarano la dose con "Wrecking Bar" singolo estratto questa volta dal loro primo album e "Tiger Blood", ep di successo prodotto dal Albert Hammond Jr, chitarrista degli Strokes.I brani vengono eseguiti alla perfezione, i ragazzi vanno come treni, non una sbavatura, sound pulito, veloce e aggressivo.
Dopo 15 min tutti "tirati" cominciamo a recuperare un pò di ossigeno con "A lack of Understanding" e "Wetsuit" splendide ballad che però mettono in risalto qualche problema tecnico come ad esempio il volume troppo basso dei microfoni che impedisce letteralmente a Young di esplodere in tutta la sua potenza vocale soprattutto durante "Wetsuit" , "castrandola" irrimediabilmente. Si ricomincia alla grande con "Teenage Icon" singolo di lancio del secondo album,  passando per  "Ghost Town" ed arrivando a "Post Break-Up Sex", un mix perfetto di successi estratti intelligentemente dal primo e secondo album dando così all'intero andamento dell'esibizione live un tocco ancora più intenso ed elettrizzante, in perfetto stile R'n'R. La band ora è all'apice della performance.
Partiti abbastanza "abbottonati" gli inglesi cominciano impacciatamente ad interagire e scherzare col pubblico tra un pezzo e l'altro. E' incredibile la discrezione di Justin Young nei "tempi morti", quasi intimidito dal pubblico, in forte contrasto con  la carica e l'energia dei suoi vibrati che invece sprigiona durante l'esecuzione di ogni singolo brano. Storia completamente differente invece per Cowan , totalmente a suo agio e disinvolto nei suoi assoli e nella sua continua ricerca di feedback da parte dei presenti, indiscusso protagonista. Pete e Arni non  mancano di sicuro all'appello, sono delle macchine, non sbagliano un colpo confermandosi degne colonne portanti della band.
Si prosegue con "Blow it up", "I always Knew" e "If you wanna" scivolando sempre più verso la conclusione del concerto. L'ultima strizzata arriva con  "Bad Mood" "Wolfpack" e "Norgaard",  un finale al tritolo che coinvolgerà anche i meno facinorosi  rimasti prudentemente in disparte durante tutto il live.
Concerto finito, Young saluta con un esilarante "Grazi mille" , la folla acclama i suoi beniamini e si riaccendono le luci dopo circa un'ora e quindici minuti di esibizione, un pò pochine ma vi assicuro belle intense, le maglie zuppe dei superstiti ed i numerosi oggetti smarriti reclamati a quelli della sicurezza ne sono solo una piccola testimonianza.
Stremato mi incammino verso l'interminabile fila per il guardaroba con la testa piena di pensieri. I Vaccines non deludono, potenti e tecnicamente dotati come pochi hanno brillantemente divertito i presenti. Nonostante siano mancate all'appello perle come "Weirdo", "Wish i was a girl" o "Blow it up", la scelta dei brani in scaletta rimane comunque impeccabile, pezzi selezionati nel modo giusto in grado di mantenere la tensione alta ed il pubblico in fibrillazione durante tutto l'evento, garantendo così un entertainment d'alto livello.
Unica nota dolente, la lieve sensazione che la band non si sia concessa totalmente, concentrandosi eccessivamente nello svolgere bene il proprio “compito a casa”, apparendo a tratti troppo artificiale e distante dal pubblico. Non si è venuta a creare completamente quell'empatia percepibile solo nei migliori live, un pò di calore e coinvolgimento in più non avrebbero guastato affatto. Ma dopotutto c'era da aspettarselo. Stiamo parlando di un gruppo agli esordi che ha da poco scoperto il successo internazionale e quasi inaspettatamente, certe doti non sono innate ma si acquisiscono con il tempo e l'esperienza, i quattro ragazzi provenienti da west-London si faranno strada ed i presupposti ci sono tutti.


Setlist
1) No Hope
2) Wrecking Bar (Rararara)
3) Tiger blood
4) A luck of undestanding
5) Wetsuit
6) Teenage icon
7) Under your thumb
8) Aftershave ocean
9) Ghost town
10) Post break-up sex
11) All in white
12) Change of heart part.2
13) Blow it up
14) I always knew
15) If you wanna

16) Bad Mood
17) Wolf pack
18) Nørgaard


mercoledì 12 settembre 2012

Review

The Enemy @ London O2  Shepherd's Bush Empire 24/05/2012
Londra 24 maggio 2012, lo Shepherd's Bush Empire, storico "teatro musicale" situato nell'omonimo quartiere ad ovest di londra, stasera ospita gli Enemy. 
Tom Clarke (chitarra, voce), Andy Hopkins (basso, seconda voce) e Liam Watts (batteria) tornano in tour nel regno unito per promuovere Streets in the sky, la loro terza fatica dopo i successi di We'll live and die in these towns (esordio al primo posto nelle classifiche britanniche nel 2007) e  Music for the people (seconda posizione nel 2009)  . 
Motivato dall'eterna passione per i tre ragazzi di Coventry fin dai loro primi ep, incuriosito dalla possibilità di poterli vedere "in patria" ma, soprattutto, incoraggiato dall'esiguo costo del biglietto (£12!) decido di recarmi allo Shepherd's Bush Empire.
Appena entrati si ha subito la sensazione di essere in un vero e proprio tempio della musica; i quadri delle performance live di David Bowie, Elton John, Amy Winehouse, Oasis, Rolling Sones, Who appesi sulle pareti vellutate lungo le scalinate per accedere alle gallerie, ne sono una piccola testimonianza.
Il teatro, di proprietà della BBC fino al 1991 successivamente acquistato da un privato, tra platea e gallerie ospita circa 3000 persone. L'evento è ovviamente sold out, tra il pubblico pagante molti casuals, mods, scooterboys e qualche punk della prima ora con prole al seguito comodamente posizionato in galleria.
L'atmosfera comincia subito a scaldarsi grazie al dj-set pre-concerto: brani come Eton rifles dei Jam, Rock the Casbah dei Clash, Our House dei Madness, Baba O'riley degli Who echeggiano nella sala, l'intero teatro segue "urlando" ogni singola strofa, roba da far accapponare la pelle. 
La folla, come si suol dire, ora è letteralmente in delirio e proprio sulle note finali di Baba O'riley salgono sul palco gli Enemy, la musica sfuma, i riflettori si spengono, Tom Clarke saluta il pubblico e attacca subito con Gimme the Sign primo singolo tratto dall'ultimo album.
Un muro di suono si solleva e con esso anch'io, spinto però da circa cinquecento inglesi impazziti. Cominciando a maledire me stesso ed il  mio dannato amore per il sottopalco, cerco in qualche modo di resistere all'albionica bolgia inferocita. Come se non bastasse comincia a piovere birra da ogni parte, come è tradizione da queste parti; ne compri quattro, ne bevi una, ne lanci tre (inglesi gran popolo).
I tre "angry lads" di Coventry sono in serata  e rincarano la dose proseguendo con Aggro, Had enough, Saturday e poi ancora Away from Here, Be somebody, 1-2-3-4 e Bigger case.  
Si scatena il panico, partono a mille e praticamente non si fermeranno mai, senza respiro. Pezzi tirati, ancor più dal vivo, riff violenti, liriche aggressive, provenienti dalle strade, dall'inghilterra reale, fatta di crisi, cemento, fabbriche, sudore, sopravvivenza e futuro incerto, ben lontana dall'immagine vincente, tutta lustrini e paillettes, fortemente voluta dall'estabilishment britannico nelle sue tv nazionali (fenomeno accentuatosi proprio a ridosso delle imminenti olimpiadi di Londra).
Gli Enemy colpiscono come un pugno allo stomaco, generano una scossa musicale che cerca di risvegliare le coscienze di un'intero popolo ormai totalmente assopito e lo fanno nel migliore dei modi, a suon di chiarre elettriche.
Quest' attitudine "punk" ha generato forte seguito tra le nuove generazioni della working class inglese, il calore e l'enfasi manifestati nei loro confronti durante tutto il concerto ne sono la conferma. In patria sono praticamente degli idoli.
No time for tears è il primo brano dalle chitarre dolci che scivolano su  ritmiche molto più lente e cadenzate, puro ossigeno per i presenti e soprattutto per il sottoscritto. Il brano deve molto a This is England dei Clash, band che forse ha più influenzato le loro sonorità oltre ai forti riferimenti a band come Jam, Stone Roses, primi Oasis, Libertines, Stones. Proprio l'esecuzione di No time for tears a traghettarci verso la seconda fase del concerto, meno "violenta" e molto più "acustica" della prima. 
Così è la volta di Happy Birthday Jane, This is Real, Like a dancer  e This song splendide ballad in perfetto stile brit rock che mutano completamente l'atmosfera dello Shepherd's Bush Empire rendendola molto più distesa, quasi surreale. I nervi si rilassano lasciando spazio a cori ed occhi lucidi. Tom chiede di sostituirlo alla voce ed il pubblico risponde egregiamente. Dopo This song la band abbandona il palco per una breve pausa proprio nel momento di maggior empatia con i presenti . 
Acclamati come eroi moderni, i tre escono dopo qualche minuto e si preparano al gran finale. 
Si riparte con We'll live and die in these towns, singolo che da il nome al loro album d' esordio, per molti dei presenti più di una semplice canzone, uno spaccato di realtà inglese in cui non è difficile immedesimarsi, un nuovo inno generazionale che si scolpisce nell'animo di chi l'ascolta. 
Puro, diretto, brutale, facilmente paragonabile ad un'altro inno epocale, That's entertainment dei Jam, non solo per la forte assonanza musicale ma anche per l'incisività del testo. 
Siamo arrivati all'ultimo pezzo, You're not alone, tra i più riusciti del primo album. Una gloriosa cavalcata dal ritmo "in levare" della batteria affiancata da una chitarra elettrica ed un basso dannatamente ostili. Riparte il pogo, al quale stavolta decide di partecipare anche Andy Hopkins con un clamoroso stage diving dopo aver abbandonato il basso sul palco per qualche secondo, ritornerà a suonarlo poco dopo con i jeans completamente a brandelli, esilarante. 
Il testo è impegnato socialmente, rivolto agli operai di una fabbrica Renault di Coventry in sciopero, sotto lo spettro di una imminente chiusura, li esorta a non mollare, a continuare nella lotta e nella difesa di tutto ciò che sono e che rappresentano, la parte sana, onesta e lavoratrice dell'inghilterra. 
Il concerto finisce, un'ultimo saluto e si riaccendono i riflettori. I ragazzi hanno dato tutto, hanno coinvolto, hanno emozionato, si sono divertiti ed hanno fatto divertire tutti. 
Esco dallo Shepherd's Bush Empire distrutto ma soddisfatto, fiducioso di poterli rivedere al più presto in Italia, purtroppo conscio di non poter più assistere ad un'esibizione di simile intensità.
Doveroso chiudere con un'accenno al gruppo spalla, i Violet May. In attivo da un paio d'anni, provenienti da Sheffield. Suonano del buon brit rock indipendente stile madchester. Sono già scesi in italia lo scorso anno toccando Roma, Firenze e Venezia come confermatomi dal cantante Chris Mclure davanti ad un paio di pinte in un pub limitrofo allo Shepherd's Bush Empire, poco dopo il concerto. Il loro ultimo singolo si chiama Bright or Better. Ne possiedo orgogliosamente una copia numerata in vinile gentilmente regalatami dalla band con tanto di dedica: "To Daniele Forza Italia"...beata l'ignoranza.


Setlist  
Gimme The Sign 
Aggro
Had Enough
Saturday
Away From Here
Be Somebody
Bigger Cages (Longer Chains)
No Time for Tears
1-2-3-4
Happy Birthday Jane
This Is Real
Like A Dancer
This Song

We'll live and die in these towns
You're Not Alone

The Enemy sito ufficiale

giovedì 30 agosto 2012

 What's new

Rolling Stones: Quattro concerti in Autunno ?
Durante il loro cinquantesimo anno di esistenza, i Rolling Stones tornano a suonare in uno studio di registrazione a Parigi. Questo è quanto trapelato da un "tweet" sulla bacheca di Mick Jagger. La notizia non farà altro che alimentare le già numerose voci che gravitano attorno alla band.
Un'atmosfera di forte attesa generata proprio dagli stessi Stones con dichiarazioni ufficiose poi puntualmente smentite o generiche interviste riguardanti una loro possibile esibizione dal vivo da qui alla fine dell'anno.
E' proprio questo il caso dell' ultima indiscrezione apparsa oggi su Billboard, rivista musicale americana, che annuncia quattro possibili concerti per le pietre rotolanti durante questo autunno, due all'O2 Arena di Londra e due al Barclays Center di Brooklyn. I quattro concerti sono stati organizzati dall' imprenditore inglese Richard Brenson e dal promotore australiano Paul Dainty, disposti a sborsare ben 25 milioni di dollari pur di vedere i loro beniamini salire sul palco in occasione del loro cinquantenario.

Che sia fondata o meno, una cosa è certa, la notizia contribuirà ulteriormente ad aumentare l'incredibile alone di imprevedibilità ed eclettismo che da sempre circonda la band; il recente rifiuto ad esibirsi durante la cerimonia di chiusura delle Olimpiadi di Londra, ne è la conferma.
Da segnalare, l'interessante mostra fotografica terminata pochi giorni fa tenutasi nelle East Wing Galleries a Londra. Una mostra che ha ripercorso cinquanta anni di musica, tragressione, eccessi ma anche sconfitte attraverso 76 stampe inedite e rare, riprese dal vivo e in studio e reportage inediti.
Tra tutte, molto significativa, la foto che mostra gli Stones davanti al Marquee Club, storico club londinese che ha dato i natali alla maggior parte delle rock band britanniche (la sede storica era su Oxford street, poi trasferito su Wardour street, non più esistente da qualche anno), esattamente  cinquant'anni dopo la loro prima esibizione, il 12 luglio 1962. 
La mostra è stata inoltre accompagnata dalla pubblicazione di un libro fotografico definitivo intitolato "Rolling Stones: 50!". Un piccolo feticcio, una vera chicca per fanatici contenente oltre 700 scatti inediti affiancati da frasi storiche dei componenti della band, come ad esempio quella di Mick Jagger in una intervista del '65: "Non so per quanto acora potremo suonare, non avremmo mai pensato di poter durare più di due anni."
Se lo diceva lui...


L'inaugurazione della mostra fotografica
 
Rolling Stones sito ufficiale

domenica 15 luglio 2012

 Review

Paul Weller @ Roma Atlantico Live 10/7/2012
 A cinque anni e tre dischi dal suo ultimo live, Paul Weller torna nella capitale e lo fa in grande stile. Sulla qualità della sua performance molte sono state le conferme ma altrettante le novità. Cominciamo dalle prime. Il Modfather sembra non curarsi minimamente dell'età che avanza e dei molti anni ormai di carriera alle spalle, dimostrando quasi la stessa passione, energia e dinamismo di quando, con i suoi Jam, cominciava a muovere i primi passi verso il successo. Dopo ben trentacinque anni, Weller si diverte ancora come un matto, mettendo tutto se stesso in ogni singolo brano. Che sia proprio questo il segreto dei suoi repentini mutamenti musicali; si percepisce nitidamente che la sua innata predisposizione al cambiamento e al mettersi perennemente in discussione sia un modo per non generare mai inutili "ridondanze", trovando così sempre nuovi stimoli e di conseguenza mantenendo alto come sempre il livello di qualità delle sue esibizioni. 
Affrontiamo ora l'elemento "novità". La curiosità per questo concerto era molto forte proprio in virtù delle sue ultime pubblicazioni discografiche. Musicalmente parlando, infatti, si è presentato sul palco un Weller molto diverso dall'ultima esibizione del 2007. Abbandonate le sonorità Soul Pop e Rock di As is Now, il Modfather negli ultimi anni  si è  gettato totalmente in una trilogia di album sperimentali e avventurosi creati in simbiosi con il coproduttore Simon Dine. 
Partendo dal groove onirico misto a folk, jazz e world music di 22 Dreams , attraversando il puro rumorismo urbano con Wake up the Nation e approdando infine all'elettronico Sonik Kicks. Tre album che vantano numerose collaborazioni con i più grandi artisti del momento come Noel Gallagher, Gem Archer, Graham Coxon, Aziz Ibrahim, Wyatt persino Foxton, solo per citarne alcuni. 
Le critiche sono state innumerevoli, ma tutte prontamente zittite dai numeri . Il pubblico ha premiato questa coraggiosa scelta facendo raggiungere a queste pubblicazioni il successo commerciale più alto dai tempi di Stanley Road. Ennesima mossa vincente da parte di un artista che tutti danno per finito dal 1991, data che coincide col suo esordio solista. 
Il concerto ha soddisfatto pienamente ogni aspettativa accontentando un pò tutti. Gli estimatori della prima fase solista (Stanley Road, The Changingman, Into Tomorrow, Foot of the Mountain, Broken Stones), i più romantici legati alle sue "ballad" (All i wanna do is be with you, You do something to me), chi l'ha scoperto nel nuovo millennio ( From The Floorboards Up, Moonshine, Come On/Let's Go, Fast Cars Slow Traffic, Wake up The Nation) e persino i presenti Mods ed Punks, ma non solo, affezionati alle liriche taglienti e alla ritmica veloce dei Jam (Start, Art Scool, In the city). Trent'anni di carriera egregiamente riproposti in un perfetto mix di brani apparentemente molto diversi l'uno dall'altro ma eseguiti egregiamente grazie all'abilità di Crofts, Steve Cradock (in perfetto completo tonic), Andy Lewis (basso), Steve Lewis(batteria) e Ben Gordelier (percussioni). Un'esecuzione tirata, tutta d'un fiato, con pochi intervalli tra un brano e l'altro, il tutto intelligentemente rallentato solo da alcune fenomenali ballate che permettevano anche al nostro Paul di rilassarsi concedendosi una sigaretta tra un assolo alle tastiere e l'altro.
Unico piccolo rammarico è non aver potuto ascoltare neanche un solo brano degli Style Council, completamente assenti dalla setlist dell'evento. 
Sonik kicks, l' ultimo lavoro che ha giustamente occupato il 40% del concerto, merita un commento a parte. Al primo ascolto su cd, l'album può sembrare non molto digeribile. Forti erano perplessità iniziali riguardo un disco forse troppo ambizioso da parte dell'artista. 
Ma durante il live, il sound elettronico, affiancato a chitarre spesso distorte da echo/delay e wah nella sperimentazione quasi psichedelica di brani come Green, Drifters, Dragon fly, The Attic, il pop ritmato e sintetizzato di Paper Chase, That Dangerous Age e When Your Garden's Overgrown , il martellante riff aggressivo di Kling I Klang, hanno riscosso forte consenso e gradimento tra il pubblico. Dapprima silenzioso ed attento ma poi totalmente coinvolto nel mood riprodotto; su tutti, i sette minuti il dub penetrante di  Study in Blue con tanto di diamonica di sottofondo suonata dallo stesso Weller, pura sperimentazione. 
 Credo sinceramente che ogni dubbio iniziale sia stato completamente evaso. Dopo un'esecuzione di questo livello la sensazione finale è che Sonik Kicks, per essere pienamente apprezzato, debba essere ascoltato dal vivo, unico contesto in cui un album del genere riesce a sprigionare tutto il suo pieno potenziale. 
Weller colpisce e convince ancora, è incredibile come un artista del suo calibro che alla sua veneranda età potrebbe ormai vivere tranquillamente di rendita, riesca a mettersi continuamente in gioco, riusciendo, grazie soprattutto alla sua onestà artistica ed intellettuale, a conquistare regolarmente tutti.
 Serata quindi sopra le righe per Weller &co. peccato per l'Atlantico e tutto il suo staff, assolutamente non all'altezza della situazione. La pessima aplificazione, i continui "fischi" della strumentazione oltre al caldo asfissiante percepito a causa della totale assenza di un adeguato impianto d'aerazione, mettono in forte evidenza l'immagine di una città che riguardo a qualità di "spazi musicali" stenta ancora a decollare.
La speranza è che la prossima location possa ospitare in modo più dignitoso l'unico vero Re d'Inghilterra.




giovedì 12 luglio 2012

 What's New

Nuovo album postumo per Amy Winehouse
Mitch Winehouse, padre di Amy, ex tassista, ora a capo dell'ente benefico "Amy Winehouse Foundation" (associazione, fondata subito dopo la sua morte, che si occupa di elargire fondi per giovani che hanno forti problemi di salute o economici), ha annunciato in un intervista alla BBC che c'è del materiale inedito della figlia, in attesa di pubblicazione. Con ancora fresca di stampa la pubblicazione del libro "Amy, mia figlia"(gli incassi verranno totalmente devoluti in beneficenza), Mitch non si ferma e dichiara di voler pubblicare il secondo album postumo dell'artista dopo "Lioness: hidden treasures" dello scorso novembre (al debutto subito in testa alle classifiche vincendo poi due dischi di platino). Si tratterà principalmente di cover e di qualche inedito il tutto meticolosamente selezionato onde evitare di incappare in una potenziale "fregatura" per i milioni di fans. Il padre si è subito dimostrato intenzionato a non voler pubblicare "robaccia" bensì un disco che sia all'altezza dei precedenti, per il rispetto nei confronti dei fans ma soprattutto nei confronti di sua figlia. 
A poco meno di un anno dalla sua morte (23 Luglio 2011) si torna a parlare di pubblicazioni postume della cantante, ma non solo per mano del padre, è infatti di questi giorni la fruizione nelle radio inglesi di "Cherry wine", contributo postumo di Amy incluso nel prossimo album di Nas - "Life is good", atteso nei negozi il prossimo 17 luglio. Non solo Nas ma anche Pete Doherty ha deciso di utilizzare del materiale composto da Amy, in questo caso però si tratta di liriche. Proprio nel maggio di quest'anno l'artista si è detto intenzionato ad utilizzare qualche "scritto" della Winehouse ed inserirlo nel suo prossimo album solista. Nella metro di Camden Town, per l'anniversario della morte, è stata affisso un poster in suo onore. Il ritratto è opera dell'artista contemporaneo Johan Andersson, creato ad appena due settimane dalla morte della cantante. Morte avvenuta, come affermerà l'autopsia, per avvelenamento da mix di alcool e antidepressivi. Il cadavere è stato trovato proprio nella sua casa a Camden, una casa tutt'oggi circondata da lettere, fiori e souvenir lasciati dai fans di tutto il mondo ormai in continuo pellegrinaggio. 





Amy Winehouse sito ufficiale


lunedì 9 luglio 2012


Interview  

Mojo intervista gli Stone Roses
Dopo "l’eroico ritorno" (NME) on stage con i tre live ad Heaton park (220.000 biglietti venduti in poco meno di un’ora), gli Stone Roses arriveranno in Italia con un'unica data milanese, il 17 Luglio.  Nella febbricitante attesa per questo storico evento, vi ripropongo in versione integrale un' intervista, condotta individualmente su ogni componente della band, rilasciata per la rivista musicale inglese ‘Mojo’ nel 2002. Ian, John, Reni e Mani parlarono per la prima volta delle ragioni che portarono la band al definitivo scioglimento nel 1997. Un evento che i fans di tutto il mondo hanno vissuto con grande dolore, consci di aver assistito alla separazione di quattro ragazzi che stavano per diventare più famosi dei Beatles.

Hai mai provato una sensazione di nostalgia riguardo allo scioglimento degli Stone Roses?
John Squire: Posso dire onestamente che ho pensato alla band ogni singolo giorno  per un lungo periodo. Successivamente i pensieri ossessivi si sono tramutati in ricordi.
Mani: Ho visto John qualche mese fa. L’ho invitato ad una festa da me. Tra uno spinello e qualcosa da bere abbiamo iniziato a ridere dei bei vecchi tempi. Anche se la mia stanza era piena di gente, in quel momento non ci interessava granchè, eravamo solo io e lui. Durante questi anni non sono state molte le occasioni per reincontrarci, lo stesso vale per Ian e Reni.
Squire: Quest’anno sono finito a casa di Mani. E’ stato grandioso.  Ci siamo confessati a vicenda che nonostante siano passati svariati anni, ancora ci pisciamo addosso dalle risate ripensando ad alcuni episodi che ci sono accaduti all’epoca. So quanto gli sono mancati quei momenti.
Reni: Tutto ciò oggi mi fa sorridere. Nonostante faccia ancora male, cerco comunque di sorridere.

Quanto eravate vicini come amici?
Ian Brown: Eravamo fottutamente affiatati, come amici, musicisti, tutto. Credevamo molto l’uno nell’altro , una sensazione che non avrebbe mai dovuto sparire.
Mani: Come gruppo eravamo insuperabili. Avevamo una cosa che chiamavamo “L’uovo”. Noi quattro eravamo al suo interno e tenevamo alla larga chiunque volesse tentare di rompere il guscio. Avevamo addirittura un nostro linguaggio, una via di mezzo tra Unwinese ed Esperanto.


Ian, tu e John eravate molto differenti, ma siete diventati subito grandi amici.
Brown: John è una persona quiete e dotata di un “lato oscuro”. Io al contrario non ho nessun “lato oscuro”. Quando io e lui eravamo insieme sembrava di vedere un daino parlare ad un mulo. Non ho mai sentito  nessuno parlare come lui. Non era il classico chitarrista rock bensì un ragazzo composto e silenzioso, quasi inquietante, ma lo volemmo subito con noi,  sapeva parlare con le dita come pochi.
Squire: Ai tempi mi sentivo bene. Facevamo tutto insieme, le persone che conoscevamo, i vestiti e i dischi che compravamo, le droghe che provavamo. Tutto questo insieme di emozioni convergeva contemporaneamente nelle canzoni che scrivevamo. Ricordo che eravamo soliti provare nel down di un trip del giorno precedente, magari  ispirati dalle cose più semplici come le sensazioni che si provano la sera lungo una lenta passeggiata di rientro da una giornata di lavoro. Ero completamente coinvolto, amavo molto girare con loro, andare nei club , vestire allo stesso modo.
Mani: Non volendo turbare sua madre e suo padre, ricordo di esser stato affianco a john durante tutto il suo primo trip di acidi. Credo fosse l’83, eravamo nel suo vecchio appartamento in Zetland Road. Io john e Cressa (Steve Cressa, che diverrà poi lo stage-dancer degli Stone Roses) ci  siamo presi un acido a testa mentre ascoltavamo ‘Loose’ degli Stooges, la cosa è degenerata in poco tempo. Ricordo che siamo usciti per strada con le tette di fuori, successivamente abbiamo comprato dei gelati al cioccolato per poi spalmarceli totalmente addosso al fianco di conigli o altre cacate simili con i quali stavamo passeggiando.  Eravamo dei ragazzacci, fottutamente imbecilli, ma da questa goliardia riuscivamo a far uscire fuori della musica molto seria.

Quali erano le qualità aggiunte di ogni persona al vostro gruppo, di Reni ad esempio?
Squire: Era divertente. Ogni sua battuta era una risata di gusto. Devo dire che, tranne il sottoscritto, avevano tutti un ottimo senso dell’umorismo.
Mani: Se immagini quattro scimpanzé della Brook Bond (reclame di una marca di tè inglese) strafatti di ogni tipo di droga pesante, beh… potrebbe uscire fuori un’immagine molto simile a come eravamo noi realmente.
Brown: Io e john non facevamo altro che parlare della band e pianificarne il futuro. Quando eravamo insieme, il tempo volava. Quando scrivevamo le canzoni,  ricordo che impiegavamo due o tre giorni per una sola parola, perché quella parola doveva suonare perfettamente. Erano grandi giorni.

Quando avete iniziato a pensare seriamente alla musica?
Squire: ‘God save the queen’ mi ha realmente fatto pensare di voler iniziare a suonare la chitarra. Stesso discorso per la musica dei Clash. Mio padre,quando ero un ragazzino, tolse il trasformatore dai binari del mio trenino elettrico. Aveva una manopola per regolarne l’accelerazione. Lo modificò trasformandolo in un attrezzo per regolare la velocità del giradischi. Lo usavo per accordare la chitarra e far uscire le emozioni.
Brown: Quando avevo 17 anni frequentavo un Northern Soul club a Salford, il Black Lion in Blackfriars Street. Io e i miei amici pagavamo 15 sterline per affittare una stanza del locale e poter mettere i dischi, ma soprattutto per  poter andare agli all-nighters con i nostri scooters e caricarci sopra le ragazze , davvero.
Mani: Incontrai John per la prima volta ad un all-nighter northern al Pips. Incontrai Ian per la prima volta durante una manifestazione antifascista, ero lì assieme alla mia piccola gang di scooterboys di Manchester  nord.  Stavamo avendo qualche piccolo problemino con degli skinheads di zona quando sbucò  fuori Ian assieme alla sua crew di Manchester sud  per darci una mano.  La prima volta che lo vidi, nel caos della rissa, pensai subito, cazzo quest’uomo assomiglia a Galen del Pianeta delle scimmie. Visto che era la mia serie televisiva preferita, mi fu subito simpatico. Ancora oggi nella mia agenda accanto al suo numero c’è scritto ‘King Monkey’.

La band sembrava prendere vita molto lentamente.
Brown: C’è questa storia di me al ventunesimo compleanno della mia ragazza dell’epoca. Eravamo ad Hulme e a fine serata arrivò Geno Washington , staccava da uno spettacolo a Saltford. Quest’ultimo aveva già sentito esibirmi da qualche parte, si avvicinò e mi disse:”Ragazzo tu sei una star, dovresti diventare un cantante.” Giuro fino a quel momento non avevo mai preso la cosa sul serio, ma da quell’episodio le cose cambiarono. Allo stesso tempo John sembrava molto convinto a voler suonare la sua chitarra, mi domandò: ”Hai voglia di cantare?”. Inizialmente pensai potesse essere una cosa un po’ effemminata da fare, ma poi tra gli incitamenti di john e le parole di Geno che mi frullavano in testa, è accaduto qualcosa in me…qualcosa che ancora non so spiegare. Così, nel 1985, cominciai a dare un senso a tutto questo.
Squire: Ricordo le band in cui io e Mani suonavamo prima dei Roses. Inizialmente nn la prendevo seriamente. Coi Roses fu tutto diverso. Suonammo quasi subito in Svezia, dopo le prime esperienze sul palco, in me cambiò tutto, sentivo che quello che stavo facendo era troppo bello per non poterlo fare a tempo pieno. Avevo un buon lavoro, in uno studio d’animazione di Manchester, mollai tutto e non tornai più indietro, sentivo che quella era la giusta via.

Una delle vostre prime esibizioni fu al Moonlight di Londra, durante un concerto di beneficenza organizzato da Pete Towshend contro l’uso dell’eroina. Avete rischiato di farvi “rubare” Reni:
Squire: Pete ha invitato a suonare Reni con lui alla fine dell’evento. Ci parlò e ci disse che desiderava avere Reni nel suo prossimo LP. Noi pensammo:” Merda, Reni potrebbe andarsene, Towshend ce lo sta fregando sotto gli occhi”.
Reni: Non ho avuto mai il desiderio di andarmene, se non dal pub in cui eravamo quella sera dopo l’evento. Io facevo parte dell’unica rock band esistente nel pianeta in quel momento, Towshend aveva avuto solo gli Who fino a quel momento…no contest.
Squire:Fu incredibile, il ragazzo che suonava la batteria con noi era così forte da aver suscitato l’interesse di un tizio chiamato Pete Townshend, non potevo crederci. Ricordo benissimo che a fine concerto Towshend venne verso di me e mi abbracciò dicendo:” Laggiù qualcuno vi ha apprezzato molto”. Laggiù l’unica cosa che ho visto è stata una fichetta coi capelli impomatati e una camicetta di seta.
Brown: Non eravamo ancora nessuno. Tutto quello che pensammo fu che quella stronza fighetta voleva portarci via il nostro batterista. E poi Reni non aveva alcuna intenzione di lavorare con un vecchio figlio di puttana ormai alla fine dei suoi giorni.

Cosa vi ricordate delle prime esibizioni? Puoi raccontarci di quando suonaste a Liverpool davanti a 20 persone ed Ian scese dal palco tra la gente cantandogli in faccia, stava forse cercando di suscitare in loro una reazione?
Squire: Ian aveva uno slogan: “Se c’è anche una sola persona là davanti che lo merita, dagli tutto te stesso”.E’ sempre stata l’etica della nostra band.
Ian Brown: Nei primi concerti non riuscivo mai a stare sul palco, non c’era un pubblico numerosissimo e  mi piaceva sempre scendere tra il pubblico e cantare per coinvolgerli e per caricarli. Funzionava ed è una cosa che tutt’oggi la gente ricorda.

Una delle vostre migliori prime esibizioni?
Squire: Senza dubbio a Stoccolma nell’85. Erano veramente i primi concerti. Dovevamo esibirci per una quarantina di minuti. Dopo venti minuti di concerto lo spiazzo davanti al palco era ancora come al solito vuoto. Poco dopo vediamo arrivare in lontananza una gruppo di donne delle pulizie, si sono fermate ad ascoltarci per cinque sei minuti, subito dopo decisero all’unanimità di cominciare a smontare i tavoli con le sedie, e di dare una spazzata a terra mentre noi nel frattempo finivamo di esibirci.

Quali sono state le vostre principali influenze in quel periodo ?
Mani: Avevamo una sorta di lato “dolce” che usciva fuori dalla nostra musica molto influenzato da band come gli Stooges e gli MC5, gli Electric Prunes e i Nuggets. Da ragazzino adoravo Gary Glitter e gli Sweet.  Johnny Squire mi ha fatto scoprire Hendrix, ma in realtà i Clash erano il suo gruppo preferito. Reni mi ha frascinato verso i Funkadelic, Sly Stone e Miles Davis. Nella band John era il più Beatlesiano cmq mentre io e Reni adoravamo sonorità più Funkadeliche. E’ stato senza dubbio molto importante per tutti noi anche il Northern Soul, con Tommy Hunt o Little Antony and the Imperials. Dopo loro percepisci che non hai più nulla da ascoltare nella musica.
Brown: Amavamo tutti Jimi Hendrix e i Beatles. Io e Mani andavamo più sul reggae a volte ma John non era d’accordo. Le prime volte che incontrammo Reni tendeva molto verso l’heavy rock, veniva da Manchester est  una zona tradizionalmente heavy rock. Lo sfottevamo continuamente per questo. Ogni tanto John si chiudeva coi Deep Purple e Black Sabbath. Adoravamo tutti gli Who. Amavamo ogni genere di musica, dagli all-nighter northern soul alle band punk rock.
Mani: Molte persone elogiavano l’acid house perche permetteva loro di scatenarsi e ballare, ma io preferivo ballare col punk rock.
Squire:  Non ho mai tollerato quelle band che una volta raggiunto il successo affermano di non essere state mai influenzate dalle sonorità di nessuno dei “grandi”. Non hanno il coraggio di ammettere che band come gli Stones o i Beatles o Hendrix hanno dato loro tutto e continueranno ad avere molto da offrire ancora.
Mani: Molti gruppi sono molto furbi. Ma la realtà è che non sono in grado di unire e sintetizzare generi che in realtà amano e ascoltano. Per noi tutto questo è stato molto semplice.
Squire: Ero fissato coi Beach boys, adoravo una compilation con un uomo ed una tavola da surf in copertina (20Golden Greats). Improvvisamente venni colpito dai Clash. Io ed un mio amico di scuola li seguimmo ovunque per un lungo periodo. Facemmo amizia con Penny Smith, che era in tour con loro come fotografa, mi regalò alcuni loro scatti e ci promise che ce li avrebbe fatti conoscere una volta arrivati a Manchester durante il loro tour. Fu di parola, prendemmo un tè con i Clash, ma non riuscimmo a dirgli una sola parola dall’emozione. C’erano un sacco di ragazzi del loro staff della nostra età, molti da Stretford molti da Sheffield, era il London Calling tour.

Avevate una squadra attorno agli Stone Roses ?
Reni: Noi eravamo tutti un’unica squadra, abbiamo dato lavoro ad un sacco di nostri amici.
Squire: Tramite Steve(Adge) abbiamo conosciuto molti ragazzi in città. Alcuni erano nostri fratelli, altri cominciarono a venire a tutti i nostri concerti alla fine alcuni di loro iniziarono a lavorare per noi, uno su tutti Steve Cressa nostro “on-stage dancer”.

Rispetto agli altri gruppi voi eravate forti, idealisti e ambiziosi. All’International festival del Maggio ’98 sei salito sul palco con una campanella in mano ed hai cominciato a suonarla, l’ora del cambiamento era arrivata?
Brown: Volevamo colpire gruppi come gli U2. Loro erano diventati così pomposi e grandi ma in realtà non avevano più nulla da dire. Dovevamo rimuovere questa gente dalla testa delle persone, noi eravamo molto meglio di loro, ne eravamo veramente convinti.

Da dove uscivano fuori tutta questa certezza e questa tua attitudine?
Brown: Sono sempre stato così, non so da dove arriva. Mio padre è sempre stata una persona tranquilla. Non ha mai avuto ambizioni al di fuori della famiglia. Era una parte della mia personalità, non c’era nulla che potesse fermarmi. Sono cose che provi normalmente quando sei giovane ti senti inarrestabile ed invincibile. Sapevo che il nostro sound era molto più originale di molte band che ci circondavano. Per cominciare il nostro batterista era il migliore che avessi mai visto.
Squire: Reni era fantastico. Aveva un’attitudine particolare, noi non dovevamo far altro che “costruirci” attorno a lui.
Reni: Le mie influenze erano Bonham e John Paul Jones, Sly Stone e poi Mani, Ian e John.
Mani: Cominciò a suonare nel pub di mamma e papà fin da bambino imitando elvis o qualsiasi altra icona musicale.

Cosa pensavi degli altri quando di sei unito a loro?
Reni: Non pernsavo nulla. Persone affascinanti con la giusta repulsione anale, il giusto spirito di gruppo il tutto accompagnato da un pizzico di genialità.
Brown: Quando arrivò Mani, le cose cambiarono. Portò nella band il suo groove sensazionale. Appena arrivò facemmo subito un demo di Elephant Stone nell’87, suonava da dio. Da quel momento ogni cosa andò per il verso giusto.
Mani: Non chiedetemi come, ma mi sentivo come se fossi sempre stato lì. I miei eroi erano James Jameson, Paul Simonon e Peter Hook, cercavo semplicemente di fare un mix di tutti e tre. Ma quando m’imbattei in John e Reni, cominciai a plasmare il mio sound sul loro.
Reni: Mani è stato cruciale. Ha aumentato il nostro potenziale. Era il mio partner ritmico ideale nonché compagno di vita. Successivamente acquisii una ritmica più veloce, e i giri di basso divennero più funkeggianti.
Brown: Più o meno dalla metà dell’87 cominciammo realmente a fare della buona musica. Dalla fine di quell’anno non c’era giorno in cui non ci accorgessimo della nostra influenza musicale.
Reni: Dopo Mani non c’era più nulla che non fossimo in grado di fare.
Squire: E’ avvenuto qualcosa. Qualcosa forse di casuale, di sensazionale, la nostra gente cominciava ad apprezzare la nostra musica, giorno dopo giorno concerto dopo concerto.
Mani: Il mio primo concerto con gli Stone Roses è stato a Birmingham, dove suonammo davanti a 13 persone. La sera successiva suonammo a Manchester davanti a 1000 persone. Poi suonammo a Cardiff o a Hull davanti a 5 persone. Ma a Manchester, fin dai primi concerti dentro magazzini che poi regolarmente devastavamo, la gente ci seguiva.  Eravamo la più grande rock’n’roll band segreta.
Squire: Era giunto il momento di rischiare. L’album era lì. Avevamo sufficienti demo per  poterne pubblicare uno. Insieme abbiamo imparato a suonare, insieme siamo cresciuti musicalmente, insieme eravamo pronti a divenire una vera band.
Mani:  La musica dalle nostre parti stava vivendo un periodo buio in quel momento. Si OK avevamo gli Smiths e poi i New Order, ma dovevamo pure sorbirci i Kajagoogoo o quella merda simile. I tempi erano maturi, potevamo dare il nostro contributo.
Brown: Eravamo a conoscenza del nostro “potere” e di cosa poter fare con esso.

Questo “potere” vi ha mai spaventato?
Brown: Ogni giorno pensavo: “E se riuscissimo realmente a diventare grandi, che ne sarà di noi? Qualcuno cercerà di fotterci o finiremo per crepare, come tutti”.  Ho sempre pensato di volermene andare all’altro mondo normalmente. Pregavo di poter rimanere sempre me stesso, qualsiasi cosa fosse accaduta, ed è quello che mi ripetevo continuamente poco prima di sciogliere la band.

Davate l’impressione di essere una band veramente arrogante, come se nessuno fosse in grado di fermarvi
Squire: Ciò non è mai stato pensato. Neanche una notte, in cinque anni di prove, merdose registrazioni e qualche demo tape più decente. Puntavamo semplicemente in alto, ai Pistols, ai Beatles, ai Byrds. Provavamo semplicemente ad accrescere il nostro livello musicale, in questo non ci vedo nulla di arrogante.

Non sembravate fare assolutamente parte della scena indie di Manchester in quel periodo.
Brown: C’era un bella scena underground a Manchester nell’86 ,band interessanti e la gente ci piaceva davvero.  Ma alla fine tutti venivano a sentire noi, Perry boys, punks, goths o semplici studenti.
Squire: Andavo all’Hacienda prima che divenisse un dance club, seguivo lì band come The Jesus and Mary Chain o gli Orange Juice.  A loro differenza non ci siamo mai radicati nella città e non eravamo parte di nessun tipo di scena.
Mani: Dal 1988, la domanda più frequente a Manchester era “Perché non l’hanno creata?”.
Brown: La Factory era una mafia. E’ vero gli Smiths ci hanno sfondato, ma anche loro hanno avuto bisogno del consenso e l’approvazione di Tony Wilson e della sua cricca. L’unica alternativa era l’Hacienda, ma suonare lì era come acchittarsi un concerto dentro casa.  La gente allora cominciò a dirci: “Perché continuate a perdere tempo qui? Dovete scendere a Londra e far conoscere le vostre facce”. Ma non credevamo fosse la cosa giusta da fare. Dovevamo continuare per la nostra strada, anche se era quella sbagliata, ma era la nostra strada. Fino a quando nell’’89 il programma musicale ‘The other side of midnight’, fondato proprio da Tony Wilson (tralaltro le immagini dell’evento sono state stampate nel folder del primo album), ci ospitò in prima serata e da lì le cose cominciarono a girare.


Avete registrato il primo album velocemente, in tre giorni o qualcosa di simile
Mani: Provavamo da sempre. Da quando conosco John non ho fatto altro che provare tutte le notti a casa sua. Dovevo prendere ben tre bus da North Manchester per arrivare fino a casa sua, con il mio basso sulle spalle. Suonavamo a volte tutta la notte senza fermarci mai. Lo stesso valeva per gli altri.
Brown: Abbiamo provato molto per quell’album. Era quello che desideravamo da cinque anni, non c’è voluto molto per registrarlo, pura passione.
Reni:  Abbiamo riarrangiato le canzoni all’infinito fino ha quando non hanno assunto un sound unico.
Mani: Non avevamo nulla da perdere. John aveva un lavoro in quel posto di merda. Lo stesso era per gli altri, ci eravamo rotti il cazzo di prendere ordini tutti i giorni per portare a casa qualche manciata di sterline al mese. Non che avessimo mai interpretato la musica come una professione o un lavoro, era semplicemente la nostra vita.

Quanto hanno pesato le droghe nella vostra band?
Mani: Giravamo ognuno nella casa dell’altro, fumando spinelli tutto il tempo. Alcuni di noi fumano tuttora. Ci piacevano i trip. L’unico che non era molto legato alle droghe era Reni, lui non ne aveva bisogno, era già sballato di suo.
Brown: Vivevamo di sola musica. Iniziavamo a suonare alle dieci di mattina e smettavamo alle sette di sera, tutto questo cinque o sei giorni su sette. Dopo aver provato ci ritiravamo a casa di uno di noi e parlavamo di musica fino alle tre del mattino. Tutto questo avveniva ogni singolo giorno.
Mani:  John non faceva altro che lavorare lavorare lavorare, non voleva quella vita. Tutto ciò che desiderava era un Portastudio, un campionatore e la sua chitarra. Ogni grande band dovrebbe ragionare in questo modo.  Io al contrario sono sempre stato un bastardo fancazzista, e di fancazzismo glie ne ho attaccato molto.
Squire: I demo venivamo spediti, ma tornavano puntualmente al mittente. Ma per una volta questo non avvenne, anzi due. Ben presto finirono sul nostro tavolo due proposte di contratto, una da parte della Rough Trade e l’altra da parte della Zomba. Ricordo che la cosa ci portò in confusione. Alcuni di noi preferivano la Zomba altri la Rough Trade. Il nostro manager spingeva verso la Rough Trade, l’etichetta secondo lui più attiva al momento. Alla fine optammo per la Zomba. Il resto della storia la conoscete.

Se si fosse ripresentata un’occasione simile, quali errori non avreste ricommesso?
Squire: Sicuramente non saremmo stati nuovamente precipitosi, abbiamo praticamente stipulato il contratto del primo disco,ma anche del secondo, a telefono. Senza preoccuparci di clausole e contro clausole.
Mani: Potevamo ragionarci un pò più sopra. Ma le cose si stavano muovendo così velocemente da non lasciarci neanche il tempo di pensare.

Avete guadagnato qualcosa dal primo album?
Mani: Il disco avrà venduto qualcosa come tre milioni e mezzo di copie, ma noi non abbiamo visto un solo fottuto penny. Ma si tratta di un classico per tutte le band agli esordi dai Big star agli MC5.

Quanto sono stati importanti i tuoi omaggi a Jackson Pollock per il successo dei vostri dichi?
Reni: Il 99% del merito è legato alla nostra musica. Ma devo ammettere che erano delle grandi copertine!
Squire: Quei dipinti sono stati molto importanti per me, ma l’imbarazzo che qualcuno potesse vederli è sempre stato forte. E’ stato Reni ad incoraggiarmi a farne uno per il primo album. Rimase così stupefatto che decidemmo di pubblicare così anche tutto il resto.
Reni: John fece un grandissimo lavoro e meritava la giusta attenzione. Era molto sensibile e spesso incompreso, meritava un po’ d’incoraggiamento. Il risultato è sotto gli occhi di tutti.
Squire: Copiai semplicemente Pollock perché credevo che non ci avrebbero mai permesso di riprodurre le sue opere sui nostri dischi. Ho semplicemente copiato, la gente ha apprezzato molto, poi sono arrivato alle chitarre.

Con i limoni sulle copertine del disco e la canzone ‘Bye bye bad man’ avevate i situazionisti e gli scontri della Parigi del ’68 in mente?
Squire: L’idea è stata di Ian, incontrò un uomo che gli raccontò di essere stato picchiato assieme alla sua ragazza durante una manifestazione nel ‘68.
Brown: Incontrai quest’uomo durante un viaggio in Europa, prima che la band partisse realmente. Aveva girato con questo limone in tasca per anni. Lottò in prima linea durante gli scontri a Parigi e mi diceva: “Se tu succhi questo limone, alcuni degli effetti del gas CS svaniscono, così puoi continuare a combinare qualcosa”.
Squire: Abbiamo sempre ammirato queste persone. Non solo per la loro politica, ma anche per i loro vestiti e per i loro capelli. Al tempo c’era un programma documentario sulle rivolte politiche dell’epoca, ora non ricordo bene il titolo del programma, ma ricordo che durante gli scontri andava sotto ‘Won’t get fooled again’. C’era un gran filmato di un ragazzo in giacca tre bottoni  e frangetta che si appostava accanto ad una barricata ed iniziava a tirare sassi alla polizia.
Brown: Adoravamo quelle azioni ed il modo in cui erano vestiti. Erano fottutamente stilosi da farti pensare: ”Hey, questi stanno andando a lavorare in banca non a fare scontri”. La cosa ci esaltava. C’era una rivista che adoravo chiamata “The Anarchists” in cui c’eramo moltissimi scatti di questo tipo. Adoravo anche i loro slogan, tipo “Usa i media, non permettere loro di usare te”. Ed è stato anche uno degli stogan dei Roses assieme a molti altri. Le loro idee erano molto potenti, alle quali spesso ci siamo ispirati.
Mani: Siamo sempre stati tremendamente politicamente e socialmente “consci”, basta ascoltare i testi dei nostri brani. Mai legati all’amore o cose simili ma solo “di parte”.

Eravate politicizzati fuori dalla band?
Squire: Manifestavo molto per le cause dei minatori fino a quando non realizzai che non sarebbe mai cambiato nulla.
Mani:  Ognuno di noi ha provato a vendere almeno una volta nella sua vita “Il lavoratore Socialista”, addirittura il nick-name di Squire divenne all’epoca John red. Vedevamo qualcosa dello spirito della Parigi del ’68 riflessa nell’acid movement. Le persone cominciavano a radunarsi ma il governo non lo permetteva. Il nuovo e repressivo disegno di legge non è stato altro che l’azione di un Estabilshment che si stava sentendo sempre più minacciato da quello che stava avvenendo. E’ facilmente intuibile.

Mani, è ormai noto che tu fossi,nella band, il più assiduo frequentatore dei “party animal”. Come sei sopravvissuto all’ acid house?
Mani: le serate all’Hacienda con Shaun Ryder e gli altri, finivano sempre a casa mia. John non è mai stato un amante dei club. Io e Ian adoravamo l’acid house. John era il classico chitarrista. Noi invece volevamo rimanere svegli tutta la notte e rimorchiare le ragazze. Puntualmente il giorno dopo alle prove Squire s’incazzava con noi dicendo:  “Se devo entrare nei locali è solo per ascoltarne la musica e di conseguenza comporre qualcosa di interessante, non per tirarmi fuori le tette e ballare come dei colglioni”. Fu in questo modo che cominciò a nascere Fools Gold. Con un giro di basso molto ispirato alle ritmiche dei giovani Mc di quel periodo.

Con Fools Gold vi siete sentiti parte della scena acid house?
Brown: Non abbiamo mai suonato acid house, ma l’abbiamo sempre apprezzata. Quando vivevamo a londra nell’88 io e Mani andavamo sempre allo Shoom e al Lando f OZ, John e Reni non uscivano spesso invece.
Mani: John in quel periodo stava cominciando a chiudersi nella tecnologia. Batterie elettriche ed effetti vari.
John: Cominciai ad appassionarmi alle ritmiche fuknkeggianti di James Brown. Tutto cominciò con un suo disco comprato in un negozio di dischi a Manchester. Ero semplicemente attratto dalla copertina di quel disco, un pugno nero con scritto su Black Power. Mi innamorai di quelle ritmiche e di quella batteria funk e ci scrissi su un pezzo.  Proposi qualcosa al resto del gruppo ma non raccolsi approvazioni. Su tutti Reni, che si sentì fortemente messo da parte.
Mani: Molti ci hanno associato ai Can per questo brano. Lo stesso Bobby Gillespie ce lo disse, ma in realtà non conoscevamo assolutamente questa band.
Brown:  ‘Fools Gold’ è stato uno dei migliori brani che abbiamo scritto, assieme a ‘Begging you’. Hanno un sound come pochi altri brani al mondo. Semplicemente un groove killer.

Quando le cose sono iniziate ad andare per il verso sbagliato?
Mani: Forse dopo il primo LP. La situazione ha cominciato a sfuggirci di mano.
Brown: Dopo il primo album avrei dovuto rimanere sul palco ed abituarmi a quella sensazione. Le piazze erano divenute troppo grandi.  Le cose andarono al di sopra delle più rosee aspettative . Non riuscivo a credere a quello che stava accadendo. Avremmo semplicemente dovuto superare il tutto e rimetterci a lavoro.

Mani: Eravamo come una piccola palla di neve che scendeva sempre più veloce da una montagna, stavamo diventando sempre più grandi senza neanche accorgercene. A volte la cosa mi colpisce ancora. Mi siedo e penso, cazzo è realmente accaduto.
Squire: Spesso mi svegliavo nel pieno della notte e mettevo in dubbio ogni cosa. Non riuscivo a capacitarmene, era realmente successo.
Mani: Ad un certo punto, non appena le cose iniziarono a funzionare, qualcuno tirò il freno a mano e tutto andò storto. Mio padre morì, Philip Hall il nostro pubblicista morì, mia madre ebbe un infarto. Il tutto mi fuse letteralmente il cervello. Ci fottemmo un pò tutti il cervello, la pressione, lo stress i problemi con la FM Revolver. Tutto questo ci distrasse dall’unica cosa da fare, un secondo album subito per diventare la miglior band di sempre.
Squire: La buona musica non è mai solo frutto di duro lavoro. E’ pieno di persone al mondo che lavorano duro senza arrivare mai da nessuna parte. In situazioni rare avviene qualcosa di magico, ma non lo puoi controllare e arriva da non si sa dove, non si sa se si ripeterà.
Mani: Molte persone hanno percepito in Second Coming il colpo di grazia alla storia della nostra band. La gente si aspettava semplici canzoni pop come quelle che avevamo scritto cinque anni prima in un album prepuberale. Dopo quattro anni di inattività eravamo cresciuti molto non solo musicalmente e volevamo dimostrare loro che potevamo fare ben oltre.
Brown: Era passato troppo tempo dall’ultimo album, non avremmo dovuto impiegare quattro anni per pubblicare un altro.
Mani: Sfortunatamente perdemmo il nostro mojo. Abbiamo aperto la porta, l’abbiamo lasciata aperta e poi siamo andati a dormire. Nel frattempo gente come gli Oasis non ha dovuto far altro che alzarsi dal letto e cogliere l’occasione di varcare quella porta. Si sono egregiamente intrufolati, come nella favola della tartaruga e della lepre.
Brown: Erano semplicemente dei ragazzini di 17 anni quando diventammo famosi, ricordo che venivano entusiasti ai nostri concerti domandandoci cosa si provasse a divenire famosi.
Mani: Ci sono stati spesso momenti nella mia vita in cui mi sono fermato a pensare a tutto quello che avevamo perduto finendo in lacrime. Per me gli Stone Roses sono ancora una questione incompiuta. Mi piacerebbe tornare insieme un’estate per poi portare a termine il tutto. E’ la cosa giusta da fare. E credo che il mondo ne abbia ancora bisogno. Dopo la nostra fine, a prescindere dal fattore musicale, i mio più grande dolore è stato quello di aver perso dei veri amici. E di recente sto valutando molto più gli amici che la loro musica. Mi sono molto rammaricato di tutto quello che è stato scritto riguardo al nostro rapporto. Sono tutte stronzate nulla di più lontano dalla realtà. Ci volevamo veramente bene l’uno con l’altro. La vita senza problemi ed ostacoli risulterebbe noiosa. Non ho mai odiato nessuno dei ragazzi.
Squire: Mi guardo indietro e vedo che tra me e Ian c’era un grande rapporto lavorativo. Progettavamo sempre per la band, avevamo sempre le idee ben chiare, remavamo sempre verso la stessa direzione. Anche con Reni il rapporto era ottimo...Mani poi era l’ingrediente segreto. Sotto molti aspetti è veramente simile a me. Concede il suo lato più vero a poche persone, ed io sono tutt’ora tra quelle persone. Ma ad un certo punto ci siamo tutti allontanati l’uno dall’altro, non riesco a definirne neanche il motivo, è avvenuto così, improvvisamente.

Ti mancano?
Squire: Non è stato tutto rose e fiori...ma penso di si. Dopotutto stavo bene. Ma è una fase dell’età. Non credo sia possibile mantenere le cose uguali. Si invecchia, si hanno più responsabilità.

Quando è stata lultima volta che hai sentito un disco degli Stone Roses?
Reni: Un secolo fa. ‘Something’s burning’ , suonava bene. Grandi pezzi di chitarra, profondi sinuosi e “bluesly”. Ognuno di loro suonava bene.
Brown: Non so dirti, l’ho dimenticato. L’ho avuto, l’ho amato, ma ciò che faccio ora è qualcosa di differente. Sto lavorando con dei ragazzi fantastici, ottimi musicisti.
Mani: Qualche volta non siamo stati in serata, spenti o fuori fase, ma da qui ad essere pesantemente criticati ce ne vuole. Se le persone hanno preteso la perfezione da noi, potevano tranquillamente starsene a casa ad ascoltarsi il nostro cd, li di sicuro avrebbero apprezzato. Gli Stone Roses sono sempre stati così, tra la più vertiginosa delle cadute ed il volo più alto.

Le persone che vi incontrano per strada, esprimono ancora tutta la loro passione per voi?
Reni: Le persone più fighe quando mi vedono, fanno gli scongiuri. Ma sono abile a non farmi riconoscere grazie a magnifici travestimenti.
Squire: Se lo fanno non me ne accorgo. Ti racconto un episodio; durante una partita dello United, poco prima dell’inizio hanno passato ‘I am the resurrection’ ,ero accanto a mio fratello, che si stava prendendo una birra al bar, feci una smorfia pensando ad alta voce che questa canzone mi sembrava totalmente stonata. Un ragazzo vicino a me annuì e mi diede pienamente ragione. Allora avevo la barba ed i capelli lunghi, ero praticamente irriconoscibile. Fu divertente perchè lui non sapeva nulla. Si stava beatamente mangiando il suo pezzo di torta e annuiva guardandomi serenamente.

Dall’intervista appena letta è facile intuire l’intento, da parte dei giornalisti di Mojo, di far emergere l’aspetto più umano della band. Un’umanità che li ha caratterizzati come compagni di vita ancor prima di essere dei talenti accomunati dalla stessa passione per la musica. Un forte legame il loro, così forte e puro  da esser riuscito a far tacere tutte le false voci riguardanti la loro ingloriosa fine, volte semplicemente a far vendere un pò di carta stampata in più. Non siamo altro che di fronte ad un gruppo di ventenni provenienti dalle periferie di Manchester che non sono riusciti a sopportare sulle loro esili spalle il reale peso del successo planetario che tanto avevano millantato, forse in modo eccessivamente spavaldo e con un pizzico d’incoscienza, come giusto che fosee a quell’età.  Altro comun denominatore dell’intervista è l’elemento nostalgico che appare continuamente nei racconti e nei ricordi dei quattro protagonisti . Un sentimento cosi fortemente radicato, nonostante il passare degli anni, da rendere quasi irreversibile e facilmente prevedibile  il lento e tortuoso cammino che di lì a dieci anni li avrebbe portati  ad uno degli appuntamenti più importanti della loro vita, quello con la storia.